GianMarco Tognazzi


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La vostra è una famiglia segnata, in senso positivo, dall'idea del clan, del gruppo patriarcale.

Il cinema tutto sommato ha una storia breve e credo sia normale che le varie famiglie che hanno dato vita alla storia del cinema italiano si trovino a farsi carico di una tradizione, a maggior ragione quelle che hanno avuto un padre come il nostro. Quando si ha un padre come Ugo, che è stato il simbolo di un’epoca, le cose sono due: o sviluppi un senso di competizione, per cui rifiuti l’immagine e il ruolo che ha avuto tuo padre, oppure ne rimani più o meno affascinato, a seconda dell’ età che hai. È chiaro che in tutto questo Ricky, che è più grande e dunque è quello che si è avvicinato maggiormente a nostro padre in un’età matura, così da avere un dialogo costruttivo sotto il profilo lavorativo, è stato il più avvantaggiato. Io invece ho conosciuto mio padre in una forma sicuramente più adolescenziale, mi sono confrontato con lui sino alle mie prime scelte professionali e devo dire che, in qualche modo, sono riuscito a comunicargli l’idea che facevo questo mestiere rispettando dei canoni che per lui erano fondamentali, ma che del resto non ci ha mai insegnato.

Cosa vi ha comunicato Ugo del mestiere dell'attore? Era solito darvi dei consigli?

Lui non ci ha mai detto fai questo o quello, però era uno molto espansivo, che parlava spesso del suo lavoro, e pur non dando consigli si faceva spiare, dandoti modo di fare tutte le valurazioni del caso sulle difficoltà che avresti incontrato durante il lavoro e su come le affrontava lui, con una dedizione totale. In quanto figli, poi, noi vedevamo il personaggio pubblico ma anche quello privato, per cui conoscevamo non soltanto l’immagine che la gente ha dell’attore, ma anche tutti i problemi che l’essere attore comporta.

Allora, dove sta il grande bagaglio di una famiglia come la nostra al di là dei vantaggi del cognome, che comunque a un certo punto diventa come un muro da rompere, un punto di riferimento insuperabile? Forse nel fatto che vedevi e conoscevi tutti i grandi del cinema… La fascinazione di conoscere tanti personaggi pubblici vedendoli però come uomini e non come celebrità, capendo la grande differenza che c’è tra l’attore, il personaggio che interpreta e quello che è nella vita reale; sentirli parlare anche dei loro problemi, capire che non è tutto semplice e facile, che non basta avere successo sullo schermo per non avere angosce, problemi, aspirazioni. È stata una scuola di vita indiretta molto forte.

Ma poi te la dovevi cavare da solo. Perché se parliamo di scuola diretta, devo dire che una domanda del tipo «papà, ma come si fa l’attore?» non è mai uscita dalla mia bocca, anche perché Ugo non mi avrebbe mai risposto.

Però poi sia tu che Ricky, Maria Sole e Thomas lavorate nel cinema.

Come ti dicevo prima, è ovvio che in una famiglia così e con questi riferimenti o c’è il grande amore o c’è il rifiuto, e non è un caso che poi tutti e quattro i figli di Ugo abbiano scelto quella strada. Del resto, credo che nostro padre oggi ne sarebbe fiero, anche se lui per noi aveva delle aspirazioni completamente diverse, nel senso che vivendo in campagna e giocando quasi sempre a pallone ti dava piuttosto uno stimolo del tipo: «devi diventare agronomo oppure devi diventare come Paolo Rossi». Sì, insomma, la sua massima aspirazione era avere un figlio che diventasse un atleta: un calciatore, un tennista… Però poi c’era una contraddizione di fondo: che lui, quando girava un film e aveva bisogno dell’attore ragazzino, quasi sempre prendeva Ricky e gli faceva fare il figlio; e poi, quando Ricky era cresciuto, prendeva Gianmarco e gli faceva fare il figlio… Thomas no, perché stava in Norvegia, e Maria Sole neanche, perché era troppo piccola, ma avrebbe preso anche lei… Però poi se da un lato ti faceva fare quelle parti, dall’altro sotto il profilo dell’aiuto, del consiglio o della spinta, non ti avrebbe mai detto nulla e non ti avrebbe mai messo nella condizione evidente di darti la sensazione che lui facesse qualcosa per te… Te la dovevi cavare per conto tuo. D’altro canto è chiaro che il ragazzino che a 5 anni va sul set e si vede trattato come un attore, al pari del padre, non solo si diverte ma soprattutto rimane affascinato dal quel mondo. E questa era una spinta eccezionale: più crescevo, più c’erano le partecipazioni nei film, e più arrivavano i risultati, più mi avvicinavo all’idea di fare l’attore anch’io.

Poi il fatto di vedere un padre così estroverso, anche se sei molto timido ti porta ad avere la voglia di fare il duetto con lui a tavola, per cercare l’attenzione. Anche perché il fatto di vivere in campagna, in una villa bellissima ma a quaranta chilometri da Roma, ha fatto sì che sino a sedici anni la mia vita fosse la casa e tutti i colleghi di Ugo che venivano da noi per lavorare con lui o per i tornei di tennis, piuttosto che per le cene che mio padre continuamente organizzava. Sicché casa diventava per me una sorta di teatro, con tutte quelle persone famose che venivano a vedere quello che succedeva, e così finivo col fare il teatrino…

E Ricky?

Ricky al lavoro ci si è avvicinato prima partecipando ai film di Ugo come poi è successo anche a me, ma dopo ha seguito una strada più precisa, che è quella dell’aiuto regista, andando a lavorare sui set. Essendo il fratello maggiore, ha preso una strada che tutti noi abbiamo guardato anche con una punta di invidia, perché il rapporto che si creava tra il figlio più grande e il padre era naturalmente segnato da una maggiore confidenza, dovura anche al fatto che Ricky aveva accesso a collaborazioni maggiori, a frequenrazioni migliori, poteva stare sempre insieme a lui sul lavoro… Però, allo stesso tempo, Ricky non abitava più in famiglia e invece noi Ugo ce l’avevamo sempre per casa. Insomma, ognuno aveva la sua parte.

Comunque, avendo visto come era andata a Ricky, più che seguire la strada di mio padre ho seguito la strada di mio fratello, anche perché la sua mi sembrava la chiave giusta per entrare nelle grazie di mio padre. Ho capito che Ugo voleva vedere il sacrificio, e allora a 16 anni ho iniziato a rinunciare alle vacanze estive per andare a fare l’assistente volontario sul set. E da lì poi è partita la mia carriera.

Secondo te, c'era un "metodo Tognazzi" nella recitazione?

Non c’era nessun metodo, c’era il talento, il grande talento affinato con l’esperienza. E quello o ce l’hai o non ce l’hai. Puoi anche diventare attore senza avere il talento, ma ti fermi a fare certe cose. Se invece hai il talento è un’ altra cosa, e mio padre ce l’aveva innato.

Secondo me, il vero talento di mio padre si vedeva quando si adattava a fare delle cose dentro le quali lui metteva molta energia ma poca profondità, come tutti i film fatti con Vianello negli anni ’50. Poi con Salce e “Il federale” è venuta la stagione in cui ha trovato una chiave interpretativa umana molto profonda, che ha sancito la sua grandezza spaziando in innumerevoli tipi: dalla caratterizzazione al personaggio misurato, alla macchietta, per arrivare alla tragedia più assoluta.

Io credo del resto che Ugo ha sfruttato la grande possibilità data dal cinema italiano di quegli anni di provare e provarsi senza correre il rischio di inflazionarsi, cosa che oggi non sarebbe assolutamente possibile, perché si ha addosso un’attenzione mediatica molto pressante. Il sovrannumero di film, dieci e più in un anno, che loro ieri potevano fare giusto per farli, dandosi al contempo la possibilità di affinarle successivamente, dava loro la possibilità di prendere una dimestichezza col set che oggi non è certo possibile.

Hai mai visto un vecchio film di Ugo in sua compagnia?

No. Mio padre non guardava mai un suo film in televisione. Non si riguardava mai, perché molto spesso non si piaceva.

Sul piano professionale Ugo aveva dei rimpianti?

Il suo vero grande rimpianto è stato non aver lavorato con Fellini al “Viaggio di Mastorna”; e devo dire che, il giorno in cui morì, mi dispiacque molto ricevere un telegramma di Fellini che diceva «Quanto mi sarebbe piaciuto lavorare con lui»: avrebbe potuto dirglielo prima, quanto meno lo avrebbe fatto felice!

Come pure rimase una grossa delusione per lui vedersi premiato a Cannes per “La tragedia di un uomo ridicolo” e poi, nell’ultima parte della sua carriera, avere un paese che (Avati a parte) non gli offriva niente di valido, spingendolo a decidere di andare in Francia per recitare in francese a teatro.

Credi che la depressione in cui era caduto negli ultimi anni fosse dovuta anche al fatto di non sentirsi opportunamente valorizzato dal cinema italiano?

Credo di sì, credo che il fatto di non sentirsi sfruttato per le qualità interpretative e drammatiche che aveva in quel momento abbia contribuito alla sua depressione. Ma non c’è una responsabilità singola di qualcuno, c’era una responsabilità di quel momento in generale, dello stato in cui versava il cinema italiano e che non ricadeva solo su di lui ma su tutti i grandi attori della sua generazione. Certo lui capiva che c’era bisogno di un ricambio generazionale, però non capiva come mai un attore che aveva sessant’anni non avesse ancora la possibilità di lavorare con autori di un certo peso specifico.

Riconosceva dei Maestri?

In avanspettacolo si rifaceva molto a Carlo Dapporto, parlava sempre della sua eleganza.

Che rapporti aveva con gli altri quattro “colonnelli” che assieme a lui avevano fatto la grande stagione del cinema italiano? Ce n’era uno col quale aveva una maggiore complicità?

La complicità maggiore Ugo ce l’aveva con Vittorio Gassman, nel senso che, pur essendo caratterialmente e nell’approccio al lavoro completamente diversi, erano molto complementari e credo che questa sia stata poi una delle chiavi anche della mia collaborazione con Alessandro [Gassman, n.d.r.]. Aveva un buon rapporto anche con Marcello Mastroianni, soprattutto negli anni ’70, dopo che fecero “La grande abbuffata”; erano anche molto simili caratterialmente, secondo me: più estroverso Ugo di Marcello, più esibizionista anche. Come pure aveva ua grossa simpatia per Alberto Sordi e credo che gli sia dispiaciuto non aver lavorato molto con lui. Forse con Manfredi non c’era un grande feeling, nella vita si frequentavano di meno. Il più vicino, comunque, era Vittorio, forse anche perché pure lui aveva casa a Velletri, pure lui aveva una situazione familiare slargata, pure lui soffriva di depressione… Però c’era un rispetto totale dei propri colleghi, dei valori che avevano in comune, del loro lavoro, nei confronti del quale devo dire che mio padre aveva una dedizione totale. Il lavoro veniva prima di ogni altra cosa…

E al di fuori della cerchia dei ''grandi cinque": a chi è stato legato in maniera particolare?

Il rapporto sicuramente più affettuosamente cinico l’ha avuto con Paolo Villaggio, nel senso che se ne dicevano di rutti i colori e si facevano degli scherzi terribili, ma pesantissimi, sai?… Sul personale… Una volta Paolo ha fatto organizzare a mio padre una cena cinese per quaranta persone e poi non si è presenrato nessuno: è stato tutto il giorno a cucinare e poi ha bestemmiato per cinque giorni… Questo per mio padre era un affronto enorme…

Poi lui aveva una grande amicizia con Marco Ferreri, che in assoluto è srato il regisra che gli ha fatto fare più varianri, assieme a Monicelli, Salce e Risi. Ma c’era anche Ettore Scola, che era un alrro regista che amava e stimava molto: “Il commissario Pepe” è un film al quale mio padre era molto legato e lui sicuramente avrebbe voluro lavorare ancora con Scola.

Tutte queste persone venivano spesso a casa vostra?

Certo. Un’altra cosa sul cinema italiano di quegli anni che ho capito grazie a mio padre è che se esistevano dei clan, erano dei clan molto allargati, dove collaboravano tutti insieme sceneggiatori, registi e attori. E così nascevano i film. A casa nostra c’erano continuamente Benvenuti e De Bernardi, c’erano Age e Scarpelli, Scarnicci e Tarabusi; e poi c’erano sempre Risi, Monicelli, Scola, Ferreri: insomma era un continuo collaborare e scambiarsi idee.

Mi ricordo che una sera a Velletri, mentre erano a cena, Marco Ferreri disse a mio padre: «Ugo, famo un film dove se magna, se caga, se scopa e se muore… Io l’ho già detto a Mastroianni, a Noiret e a Piccoli: loro hanno detto di sì. Tu lo fai?». E mio padre rispose: «Certo, facciamolo!». Poi abbiamo saputo che è andato uno per volta dagli altri tre dicendo la stessa cosa e così hanno messo in piedi “La grande abbuffata”, un capolavoro nato durante una cena a Velletri, perché, a forza di vedere mio padre che mangiava e poi si parlava sempre di donne, di lavoro e dei problemi intestinali che ne seguivano… l’esasperazione di tutte queste cose li ha portati a pensare un film come quello…

Oggi invece non è così, oggi manca il gruppo, si è più individualisti, cosa che mio padre proprio non era. Lui amava le collaborazioni e rispettava i ruoli degli altri, anche quando, come poi accadeva quasi sempre, adattava i dialoghi dei suoi personaggi. Perché poi, anche se non si è mai voluto firmare, ha sistemato gran parte dei dialoghi dei suoi film… Ugo, del resto, era una persona estremamente umile… e generosa… Aveva le mani bucate, non sapeva nemmeno dove li metteva i soldi. Spendeva e poi diceva: «Io porto avanti un’azienda, non ho una famiglia!». D’altronde lavorava così tanto anche perché aveva l’angoscia di non riuscire a stare dietro a tutto quello che si era costruito… Decine di volte, quando ha fatto i film, invece di farsi dare i soldi si faceva dare una casa o un terreno, o i mobili, le piante… Pensa che l’altra sera ho visto “Tipi da spiaggia” e ho riconosciuto due divani…

Rientrava in questa idea di "gruppo" anche quella del "Villaggio Tognazzi"?

Certamente. Credo sia stato il primo a unire lo spettacolo, lo sport e l’esibizione in una manifestazione popolare. Il “Villaggio Tognazzi” partì con sei persone, l’anno dopo erano dodici e l’anno dopo ancora erano quaranta persone e cinquecento spettatori che venivano a vedere quattro cretini che giocavano a tennis. Se consideri quante manifestazioni sportive a scopo benefico fatte dagli artisti esistono oggi, è stato un precursore anche in quello. E in questi tornei nascevano continuamente film, idee, collaborazioni: era come una cooperativa di persone che si dava appuntamento ogni estate. E regolarmente nascevano collaborazioni. Ugo lo faceva anche per questo, tant’è che gli ultimi anni del torneo, quando non c’era più questo spirito, lui lo faceva ugualmente, perché ormai era una tradizione, ma non ci credeva più…

Credi che questa stretta collaborazione con i suoi sceneggiatori e registi lo facesse sentire anche un po' "regista" dei film che interpretava?

Sono convinto di sì. Lui non l’ha mai detto, ma, per esempio, credo proprio che Ugo si sentisse in parte il regista di “La grande abbuffata”, perché sapeva che, coi suoi convivi, ne era stato più di altri la fonte ispiratrice.

Quanto ha creduto nella sua attività di regista di se stesso?

Se si pensa a quali tasti Ugo è andato a toccare come regista, ci si accorge che erano tutte cose che facevano parte della sua vita: il tradimento, la cucina, il sesso… E poi la morte, che era il suo chiodo fisso, tant’è che ritorna dal ’67 de “Il fischio al naso” all ’80 de “I viaggiatori della sera”. Quest’ultimo, del resto, secondo me espone il vero pensiero di mio padre sulla società di quegli anni e un po’ anche su quello che gli stava accadendo come attore, cioè il fatto che i vecchi a un certo punto vengono messi da parte, mandati a morire… Ugo aveva una grande paura della morte, e infatti la esorcizzava in ogni modo: mi ricordo che ci fu una cena a Velletri con tutti gli amici e colleghi al termine della quale volle assolutamente fare una specie di sondaggio per decidere chi di tutti loro doveva morire prima… E vuoi sapere una cosa? A tutt’oggi ci ha preso…

“L’ape regina”, “La grande abbuffata”, “Il petomane”… Pensando a questi e a tanti suoi altri film da interprete, ma anche a quelli che ha firmato come regista, si nota che c’è sempre stata in Ugo Tognazzi una forte tensione verso ciò che appartiene al corpo, al fisico… Pensiamo anche alla sua passione per la cucina…

Mio padre era un uomo molto poco spirituale. o meglio, era spirituale per convenienza: quando aveva paura diventava anche molto religioso… In realtà, però, era una persona legata alle cose materiali: al gusto, al tatto, alla vista, ai sapori, a ciò che è fisico, materiale. Ma non nel senso di possesso, non in quanto appartenenza: lui anzi non aveva il senso della proprietà. Le cose sue, quelle alle quali davvero teneva, erano delle cose da non crederci: i pennarelli, per esempio, quelli che usava per scrivere le ricette e disegnare i menu come voleva lui… Se glieli toccavi s’arrabbiava.

E tu glieli toccavi...

Certo… Io ero ragazzino e quando lui non stava a casa puntualmente andavo a prenderli… E credo che, se io due volte in vita mia ho avuto uno schiaffo da mio padre, una volta me l’ha dato per i pennarelli. Se poi gli sfondavi la macchina non gliene fregava niente… Però lui poteva diventare pazzo per gli occhiali, per gli accendini e per i pennarelli… Dei vestiti non gliene fregava niente, si faceva dare i vestiti dei film e se li faceva riadattare dal nostro maggiordomo, che era un ex sarto… Le cose che faceva col suo lavoro e di cui era proprietario, le faceva per farne usufruire gli altri… Tu pensa che si fece la piscina interna a Velletri e credo che poi ci si è bagnato due volte nella sua vita… La sauna credo che l’abbia fatta una volta… S’era fatto il campo da tennis e ci giocavano tutti quelli del villaggio: lui faceva una partita ogni tanto… Ma non perché trovava il campo occupato, perché la sua gioia era di vedere la gente che godeva delle sue cose. No, non aveva per niente il senso della proprietà…

Hai detto che non rivedeva mai i suoi vecchi film, e le recensioni le leggeva?

Non gliene fregava assolutamente niente quando erano positive, s’incazzava solo quando erano negative, perché molto spesso avevano una punta di attacco personale. Del resto la critica ha trattato Ugo in maniera abbastanza ambigua anche su film come “Il federale”, per esempio, il che è la dimostrazione di come molto spesso i critici non riescono ad essere obbiettivi nella contemporaneità dell’evento. In compenso, però, il pubblico ha sempre avuto un amore incredibile per Ugo: incontro continuamente persone che mi dicono che conoscevano mio padre e che lo ricordano con affetto, il che mi fa sempre un enorme piacere, perché poi mi accorgo che la visione umana che la gente ha di Ugo è sempre la stessa…

La politica...

Anche qui era un po’ come per la spiritualità: andava un po’ dove gli conveniva… Sostanzialmente era apolitico, e credo che l’apice dimostrativo del suo essere disinteressato alla politica l’abbia raggiunto quando fece lo scherzo con quelli de “Il Male”: una cosa montata da un amico di farniglia e da quelli de “Il Male”, che lui stimava, come stimava tutti i giovani che facevano cose di rottura. Una mattina io arrivo a Roma e vedo tutte le edicole tappezzate di giornali con in prima pagina la foto di mio padre arrestato dalla polizia come capo delle Brigate Rosse… Mi divertii moltissimo, perché io ero, e sono tuttora, molto orgoglioso che papà facesse simili «cazzate»… Anzi, speravo che ne facesse una all’anno… E intanto per questo scherzo io non sono potuto andare a scuola per due anni, perché mia madre aveva paura che mi facessero qualcosa…

Del resto, la mascherata era una delle sue caratteristiche, pensiamo anche al gusto di recitare “en travesti”.

Anche questo l’ha fatto perché rientrava nella sua idea di rompere le scatole al cosiddetto buonsenso dominante. Perché, quando nei ’70 lui parlava di quelli che si travestono e vanno a battere al Colosseo, faceva una cosa che dava fastidio ai più. E a lui piaceva proprio andare a stuzzicare la sensibilità del pubblico su dei tabù che davano particolarmente fastidio. Perché sapeva che le cose che all’epoca infastidivano, l’indomani sarebbero state di normalissima amministrazione e, non comprendendo la scarsa lungimiranza del pubblico, faceva di tutto per farlo crescere assieme a lui. Per questo faceva delle scelte azzardate, come ironizzare sulle Brigate Rosse: perché era uno che cercava la provocazione onesta.

Che rapporto aveva con i giovani comici?

Lui era pazzo di Benigni, completamente innamorato di Benigni! Lo faceva ridere molto anche Diego Abatantuono, che per un periodo ha vissuto pure a casa nostra, a Velletri. Verdone era un altro che sin da ragazzino veniva a giocare con noi al torneo di tennis. E poi Troisi, Nuti… Insomma, tutta la categoria dei nuovi comici venuta fuori dalla televisione.

Sicuramente c’era anche il timore di sentirsi un po’ spodestati, ma prevaleva la consapevolezza che quei giovani avevano la capacità di rappresentare la nuova società e le ultime generazioni, cosa che comunque lui ormai non poteva più fare.

Prima ancora aveva amato molto la comicità d’avanguardia cabarettistica milanese: Cochi e Renato, Enzo Jannacci, Teo Teocoli. Li amava perché gli ricordava un po’, sia pur in forma modernizzata, il tipo di spettacolo che faceva lui agli inizi e poi lo riportavano alle sue radici.

Ricordo che gli piaceva molto anche “Quelli della notte” di Renzo Arbore: Nino Frassica in particolare lo faceva ridere come un pazzo, ma anche Bracardi, Marenco, Ferrini…

Alla fine aveva deciso di tornare a fare televisione, visto che è morto praticamente al termine delle riprese di “Una famiglia in giallo”, un serial tv per Raiuno.

In realtà non aveva nessuna voglia di farlo. Pensa che, pur di trovare uno stimolo, aveva messo nel contratto una clausola in base alla quale accettava quel lavoro solo a patto che nella parte del figlio ci fossi io. Cosa che lui non aveva mai fatto e che io ignoravo completamente. tant’è che io rifiutai e gli misi accanto il mio più caro amico, Luca Lionello. Ma era evidente che mio padre stava lavorando controvoglia, faceva una cosa che non gli piaceva e non dipendeva né da Aliprandi né da Odorisio, i due registi, coi quali pure non s’era preso bene. Ricordo che tornava a casa distrutto, disperato, e non poteva andare avanti così. Infatti alla fine gli è venuto un ictus.

La depressione degli ultimi anni lo aveva cambiato?

Non era più Ugo, era diventato uno solitario. Ricordo che un momento altissimo di comicità drammatica è stato il penultimo capodanno che abbiamo fatto tutti insieme, con cena e tutto il resto: viene tutta la famiglia Gassman mi ricordo che mio padre e Vittorio passarono tutta la sera in depressione totale, a piangere in camera e a fare a gara chi dei due era più depresso, sino a quando non hanno iniziato a ridere della loro depressione…

Comunque, credo che se ci fosse stato un atteggiamento diverso da parte del mondo del cinema nei suoi confronti, se dopo il premio a Cannes avesse avuto delle offerte in grado di sfruttare le sue capacità, mio padre non sarebbe morto così presto. Perché la depressione di Ugo è stata quella di una persona che, pur sapendosi al massimo della sua espressione artistica, non si sentiva più considerata.

È bello il fatto che tu, parlando di tuo padre, lo chiami per nome...

In realtà questa è un’ altra delle sue curiosità… Io dicevo: «Papà… », e lui niente; «Papà…», e ancora niente; «Papà…», sempre niente. Infine gli dicevo «Ugo…»; e lui: «Che c’è?»…

Non reagiva alla parola “papà”, perché lui non era un “padre”, era molto più “figlio” che “padre” dei suoi figli… E fondamentalmente la vera chiave di Ugo è stata proprio questa: che è sempre rimasto un bambino, ha saputo mantenere intatta la sua innocenza e la sua ingenuità, rigettando tutte quelle sovrastrutture che un uomo mette sopra la propria coscienza e che gli impediscono di mostrare il bambino che è in lui. Credo proprio che sia il vero segreto di mio padre, l’essere stato sempre un bambino, aver mantenuto la purezza, l’onestà, il piacere del gioco di un bimbo: la cucina era un gioco, le donne erano un gioco, tutto era un gioco. Il suo lavoro in primis.