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CUCINA
  - ANEDDOTI
 
     
 
     
 
ANEDDOTI
 
 
 
Gioie della campagna
 
     
  Quando ho comprato questa tenutella di Velletri, all'inizio della mia carriera cinematografica, c'era abbondanza di vino (vino buonissimo) e di olio, anch'esso molto buono; ma non c'era l'orto. Avevo acquistato la vigna nella convinzione di poter disporre di tutto il necessario per preparare i miei "mangiarini", come li chiamano dalle mie parti. E invece, quando arrivava la buona stagione, c'era un'abbondanza perfino esagerata di due soli prodotti: melanzane e pomodori. E quando ogni tanto ti davano l'annuncio di qualche peperone appena spuntato, si trattava di un evento eccezionale...  
     
     
 
L'acqua fa male...
 
     
  A svelarmi l'arcano fu Luciano, l'attuale mio confinante, il quale a quei tempi aveva la vigna a mezzadria. Il fatto era, mi spiegò, che non si potevano coltivare ortaggi perché nella zona c'era un'erogazione d'acqua talmente limitata che bastava appena per lavarsi la faccia. A questo punto, o rinunciavo all'orto che avevo sognato oppure provvedevo a risolvere con i miei mezzi il problema dell'acqua. A farmi decidere all'azione furono certe voci raccolte tra i contadini del vicinato secondo le quali sotto la mia vigna dovevano esserci delle falde acquifere. Bastava scavare e la zucchina di produzione propria sarebbe stata presto una felice realtà. Ci credevo, e in questa convinzione, devo dire condivisa abbondantemente dal vicinato, interpellai un rabdomante perché, con i suoi strumentini, indicasse il posto esatto dove scavare. La falda, disse, passava a 30 metri: raggiungerla sarebbe stato un gioco. Invece, come vedrete, i trivellatori di una impresa specializzata alla quale avevo appaltato il lavoro dovettero impegnarsi al di là di ogni previsione, e io devo ringraziare Dio di non aver "bucato" (causando seri fastidi diplomatici al nostro Governo) la Nuova Zelanda che, come tutti sanno, è il Paese agli antipodi del nostro. A 30 metri di profondità l'acqua non c'era, e non ce n'era ombra nemmeno a 50, 100, 300 metri, con buona pace del rabdomante. I trivellatori, incontrando enormi difficoltà nel perforare i blocchi di granito, mi chiedevano sempre più spesso: «Mo' che famo?». E io, con la testardaggine del pioniere, a rispondere: «Continuiamo, continuiamo». Finalmente, dopo la feroce resistenza di altri blocchi di granito, da 350 metri di profondità ecco il primo zampillo... Credo sia mancato poco che impazzissi dalla gioia. Un ricercatore di petrolio nel Texas davanti al primo zampillo di oro nero non sarebbe stato più euforico di me. Con questa differenza, non rilevabile al momento: che col suo zampillo lui avrebbe fatto i miliardi. lo, viceversa, avrei soltanto potuto, oltre a gustare la "zucchina della mia vigna", come si dice qui, disporre di un po' di terreno dove veder spuntare, in determinati periodi dell'anno (quelli stabiliti dalla natura, s'intende), tutti i tipi di frutta e verdura.  
     
     
 
...al portafoglio
 
     
  Quel che avevo cercato era l'acqua e non il petrotio (che se fosse venuto, inutile dirlo, sarebbe stato ugualmente bene accetto) e perciò gli orizzonti che quel primo zampillo mi aveva aperto potevano anche legittimare una svolta nel mio del tutto normale abito psicologico. Nondimeno, per giungere alla preparazione del mio primo menu, casereccio in tutti i sensi, dovette trascorrere altro tempo perché si superassero nuovi ostacoli. A cominciare dalla difficoltà di portare l'acqua in superficie onde assicurarne il necessario fabbisogno all'orto che, intanto, la mia fedele coppia (Lino e Maria) si apprestava a organizzare su quella che, per secoli, era stata terra di pomodori e melanzane. Ma sono peripezie che vi risparmio. Come ho risparmiato a me stesso il calcolo di quanto mi sia costata la prima zucchina o il primo mazzetto di insalata adolescente.  
     
     
 
Il cenacolo
 
     
  Mancava, quando comprai la casa, quello che io chiamo il "cenacolo": un luogo da dedicare alla nobile consuetudine del mangiare in campagna. Bisognava aggiungerlo, visto che non lo si poteva ricavare dal fabbricato esistente. Un giorno, venendo su da Roma attraverso la via Appia, adocchiai in un cantiere che sorgeva in margine alla strada una grande massa di pietre bianche che mi sembrarono proprio bellissime. Mi fermai e ne trattai subito l'acquisto. «Con queste pietre» dissi poi al Frontini, un capomastro mio confinante che sara poi l'artefice di tutte le trasformazioni successive, «mi fai un muro. Lo metti a fianco di quello che c'è.. li unisci con altri due muri più corti, poi copri con un tetto. lì ci farò la sala da pranzo».  
     
     
 
La mia religione
 
     
  Il Fronfini si mise al lavoro seguendo alcune mie indicazioni schizzate alla buona, lì per lì, e quando, all'approssimarsi della Pasqua, venne il prete per la benedizione, entrando nel locale dove ancora si stava lavorando mi disse: «Bravo, Ugo, vedo con piacere che hai pensato anche allo spirito, costruendo la cappella di famiglia». In effetti, a guardar bene, la pietra nuda, le finestre ad arco, la porta che dava all'esterno a cui avevo anche applicato quei vetri a piombo colorati davano al locale l'aspetto di una chiesetta di montagna più che di una sala da pranzo, dal che si deduce che io ho un concetto quasi religioso del mangiare...  
     
     
 
Ospitalità su misura
 
     
  La camera da letto nacque invece intorno a un lettone di campagna veramente antico, massiccio, alto da doverci saltare sopra, ma soprattutto corto. Solo dopo anni mi sono reso conto che doveva essere stato costruito non da un mobiliere ma dallo stesso contadino che ci dormiva: costruito perciò "su misura" e lo sconosciuto contadino non poteva essere alto più di un metro e cinquanta. Ora questo letto è stato trasferito nella camera degli ospiti. Ospiti che, prima di ospitare, devo misurare. Se sono alti, li caccio. Anche perché nel "cenacolo" pocanzi descritto c'è una "fratina" lunga non meno di sei metri ma strettissima; ci possono stare a tavola anche quattordici persone. Ma tragico è il momento in cui si siedono. Urla disumane avvertono che molti degli ospiti si sono inavvertitamente sferrati spaventose ginocchiate. Da un po' di tempo ho adottato il sistema di mettere sempre un uomo di fronte a una donna, favorendo parecchi fidanzamenti e una dozzina di adulteri. Le ginocchiate se le danno solo quando metto di fronte i mariti e le mogli.  
     
     
 
Diritti degli animali
 
     
  Fatto l'orto, non poteva mancare il pollaio; voglio dire un allevamento di animali, sia pure a carattere familiare. A metterlo su ci pensò Maria. Ora, sempre per merito di questa donna straordinaria, è più di un pollaio familiare per la sua "popolazione" di polli, conigli, colombotti, faraone: una fauna ricca e selezionata ma che difetta, purtroppo, di un elemento preziosissimo: il cappone. Non possiedo capponi perché non si trovano più donne disposte a castrare i poveri galletti. Maria, che è perfetta in ogni cosa, ha questo pudore tutto veneto di non toccare i testicoli dei galli. Ma tant'è: chi potrebbe biasimarla, dato che io stesso mi rifiuterei all'idea di violentare il pennuto nel suo "essere... gallesco"?  
     
     
 
La vendetta del maiale
 
     
  Il porcellino in casa fa parte della tradizione della gente della mia terra. Da ragazzo ho vissuto a Cremona, non in campagna, ma il maiale appartiene ugualmente, con il rito annuale dell'uccisione, al bagaglio dei miei ricordi perché i nonni materni, di origine contadina, il maiale, e quindi i prodotti del prezioso animale, non se lo facevano mancare. Un giorno andai quindi al mercato di Velletri e acquistai un maialino. Ma non ebbi fortuna, come del resto in altre mie vicende gastronomiche. Non sapevo infatti che anche il maiale va castrato. Per facilitarne l'ingrassamento, mi venne detto. E, data la ben nota posizione di Maria rispetto a questo barbarico tipo di operazione, dovetti rivolgermi ad altri con risultati, come vedremo, assolutamente disastrosi. Allevai per un anno il maialino nutrendolo con le mie pietanze, nella convinzione di compiere, si fa per dire, un atto di giutizia (pensavo a tutti quelli che mangiano come maiali) finché, a un certo punto, cominciai a guardare l'animale con sospetto: a furia di mangiare i cibi dell'uomo non avrebbe finito per assumere sembianze umane? E, in tal caso, con che cuore avrei potuto farne salami e cotechini? In effetti ciò che non andava era tutt'altro, e mi colpì in pieno, di sorpresa: la carne, allorché l'animale venne "giustiziato" per essere trasformato in salami, prosciutti, coppe, pancette, salsicciotti eccetera, risultò assolutamente immangiabile. Mi dissero che era stata mal eseguita l'operazione di castrazione e perciò i tessuti connettivi epiteliali e muscolari, il sangue e le parti grasse del porcellino avevano acquistato un sapore di urina; sicché l'allevamento del primo maiale si risolse in un pietoso funerale all'interno della vigna stessa.  
     
     
 
Curiose no
 
     
  I curiosi in cucina mi danno terribilmente fastidio, soprattutto quando si tratta di signore che fanno un sacco di domande su quello che faccio senza che gliene importi un accidente, perché mai si metterebbero davanti ai fornelli a preparare un piatto di spaghetti. Oggi le donne non cucinano più. Non cucinano più nemmeno le mamme. Se vuoi mangiare qualcosa di decente devi rivolgerti alle nonne, se non alle bisnonne. Un buon baccalà alla vicentina (che poi è stoccafisso e non il baccalà di Roma, che è salato) lo puoi trovare soltanto in qualche casa, veneta si capisce, dove ancora sopravvive una bisnonna. E così certe polente. Che cosa faccio io allora quando, annunciate da gridolini, mi vengono in cucina queste curiose? Le accarezzo, baciandole sulle guance come si usa nel mondo dello spettacolo, con le mani puzzolenti di aglio e tappo loro la bocca con un pezzo di salame, magari quello napoletano, di fuoco...  
     
     
 
Curiosi si
 
     
  A volte però i curiosi in cucina sono utili, sempre che siano sinceramente interessati a quello che sto facendo; quando preparo un pranzo cinese, poi, sono addirittura indispensabili. Voi sapete infatti che la cucina cinese, pur essendo di esecuzione relativamente veloce, richiede un'accurata e lunghissima preparazione. La carne va meticolosamente disossata, le verdure tagliate a pezzetti tutti uguali, le spezie e i grassi dosati al milligrammo, senza contare l'enumerazione e la ricerca degli ingredienti che precede il tutto. Una volta ne ho contati 75, tanto per dare un'idea di quella cucina, i cui menu possono essere formati anche da 15 piatti perché i cinesi mangiano piccole quantità di tante cose diverse. In queste occasioni, come dicevo, i curiosi sono i benvenuti. Li metto lì a tagliuzzare le cipolle, a pestare il lardo, a spinare il pesce o a disossare la carne. Talvolta li ho anche messi a lavare i piatti o a fare altri utili lavoretti, magari facendoli venire il giorno prima, perché di tempo ce ne vuole per preparare un pranzo cinese.  
     
     
 
Il pericolo giallo
 
     
  Io sono meticoloso, e ogni pranzo cinese lo faccio precedere da una lunga preparazione, inserendo singoli piatti nei menù abituali di casa; non solo li assaggio io, dunque, ma uso come cavie i miei, che sono piuttosto difficili di palato. Tuttavia, nelle rare occasioni in cui preparo un pranzo cinese c'è sempre qualcosa che va per il verso storto. Mettiamo l'ultima volta, nel febbraio 1977. Avevo invitato il solito gruppo di amici (Villaggio, Gassman, il produttore Giovanni Bertolucci, gli sceneggiatori De Bernardi e Benvenuti, Scola, Age e Scarpelli con le rispettive consorti), tutti affezionati a questo tipo di cucina. L'appuntamento però era andato a coincidere proprio con il tardo pomeriggio del giorno in cui a Roma scoppiava la rivolta degli studenti. Me ne stavo ignaro nella quiete campestre, quando cominciarono ad arrivare telefonate desolate del tipo: «Guarda che non ci possiamo muovere... siamo tappati in casa... qui si spara da tutte le parti... abbiamo la casa piena di gas lacrimogeno... siamo bloccati prima di Largo Argentina...». Ma, come vedrete, c'è tutta una casistica dove si va dai problemi sociali a quelli individuali.  
     
     
 
Il pericolo Paolo
 
     
  Torvajanica, alcuni anni or sono. Invitate più o meno le stesse persone, da due giorni stavo lì a preparare i vari ingredienti e aspettavo, per passare all'ultima fase della preparazione, che gli ospiti arrivassero da Roma. In particolare aspettavo Paolo Villaggio, che mi aveva formalmente promesso di venire in anticipo, per darmi una mano nell'ultima fase, portando con sé Vittorio Gassman e il noto press-agent Enrico Lucherini e una sfilza di amici che non sto qui a enumerare. Erano tanti... E non che ignorassi la mancanza di parola del Paolo, che non è mai stato puntuale per tradizione, ma evidentemente il clima cinese mi procura una situazione di straniamento, per cui il cerimoniale dell'invito mi sembra una cosa tanto seria da non poter essere messa in discussione.. neppure dal Villaggio. Sono le 6 del pomeriggio quando Villaggio telefona dicendo: «Guarda che arriviamo un po' in ritardo. Ho telefonato a Vittorio, ma non l'ho trovato in casa. Adesso riprovo». E io: «Va bene, vi aspetto per la cena, allora; ma mi raccomando, siate puntuali perché, lo sapete, è tutto calcolato... Io alle 8 e mezzo devo cominciare a cuocere per farvi trovare tutto caldo e fragrante». D'accordo. Alle 8 e mezzo però non si vede ancora nessuno. Alle 9 faccio delle telefonate: mi rispondono tranquillamente che stanno ancora a casa, che partiranno subito e che in capo a mezz'ora saranno da me. Alle dieci li sto ancora aspettando. Alle dieci e mezzo, preso da una specie di furore, abbandono la casa, trascinando con me Franca, e andiamo a cenare in una trattoria di Torvajanica. Ovviamente, con il veleno in bocca.  
     
     
 
Sconfitte
 
     
  Quel che però mi mise a terra fu il 2 assegnato alla ribollita: un vero disastro. È sempre molto difficile far centro con la ribollita quando si hanno dei toscani a tavola, un po' perché di ribollite se ne possono fare migliaia, una diversa dall'altra (praticamente ogni famiglia toscana ha la "sua" ribollita), un po' perché i toscani sono assolutisti: ogni volta che si affronta un discorso sulla loro cucina, li trovi sempre pronti a contestare brontolando alla maniera di Bartali... «No, 'un ci vole l'aglio, ci vole il porro... 'un ci si mette la carota.. ci vole... 'un ci si mette nulla di questo, 'un ci si mette nulla di quest'altro... ovvìa, è tutto da rifare» eccetera.  
     
     
 
Colpa di Gigetto
 
     
  Il disastro comunque non era stato causato dalla mia personale interpretazione della ribollita, del resto già abbastanza "rodata", bensì da un mio legame affettivo con Gigetto. Gigetto era un maiale al quale era stato imposto questo nome con la conseguenza (non prevista al momento del "battesimo") di dover poi essere assistiti in ogni nostra seduta conviviale, per una intera annata, dal fantasma dell'animale. La domanda di Gianmarco e Maria Sole, i miei bambini, ogniqualvolta si accostavano a una fetta di prosciutto, di salame o di coppa, era sempre la stessa: «Questo è Gigetto?»; per cui il maiale si era consumato nel suo ricordo. Tranne l'osso del prosciutto che, da quel sentimentale che sono, avevo accuratamente conservato ripromettendomi di fare una buona zuppa di fagioli. Il caso volle invece che, nel preparare la ribollita per il pranzo della cooperativa, mi venisse in mente Gigetto, per cui ritenni che quella poteva essere un'occasione ancora migliore per seppellire l'ultimo ricordo del caro suino, dando con l'osso del suo prosciutto un tocco meraviglioso alla pietanza. Non l'avessi mai fatto! Fu una sollevazione generale: a un certo punto sembrò che avessi addirittura commesso chissà quale sacrilegio. Chi diceva che ero diventato matto a "profanare" la ribollita con l'osso di Gigetto, chi si scandalizzava per l'accostamento, chi (e qui parlo di Monicelli) si riteneva personalmente offeso perché, si sa, per condire «'un c'è che l'olio». E su questo, non vi dico quel che seguì di brontolamenti, sentenze, eccetera.  
     
     
 
Riscatto
 
     
  Ma fu l'ultima volta che incassai. Non si poteva andare avanti tutta la vita, data la sua, per altri versi, piacevolissima assiduità alla mia tavola, con i rimbrotti di Monicelli. Decisi allora di dargli una lezione. Dovete sapere che Mario è un gran mangiatore di verdure, va matto per le insalate, e la mia "vigna", per le ragioni che conoscete, è ricchissima di ortaggi. C'è tra l'altro un buon assortimento di radicchio che Lino e Maria coltivano con una dedizione direi religiosa. C'è il radicchio trevigiano, il radicchio veronese, il radicchio gigante verde, tutti i tipi di radicchio conosciuti, insomma. Organizzai quindi un pranzo in onore di Monicelli, in cui il radicchio avrebbe fatto da... filo conduttore, non senza un pizzico di intenzione provocatrice. Figurarsi quando Monicelli si vide servire del radicchio al lardo. Lo respinse brutalmente, sentenziando. In poche parole, ci cascò in pieno. Mi ero preparato bene e gli propinai una lezione sul significato socio-economico del lardo come unico condimento nella tradizione di alcune regioni italiane. Quando il Paese era diviso in tanti piccoli Stati gli ricordai, e gli scambi commerciali erano spesso difficili (l'olio, se non si coltiva l'olivo, non c'è, e bisogna importarlo), molte zone d'Italia altro grasso non conoscevano se non quello animale, con il quale condivano quei loro piatti che non hanno nulla da invidiare alla tanto celebrata cucina toscana. Di qui la correttezza filologica del mio radicchio; e provasse a replicare. Eravamo pari, ma la polemica gastronomica tra noi ogni tanto si riaccende. Con i toscani...  
     
     
 
Cucina e verità
 
     
  Non è che io sia un autolesionista. Non godo a flagellarmi e sono molto contento quando il mio lavoro viene lodato, esaltato, portato a esempio: ma l'amore di verità mi spinge a dire che non sempre le cose in cucina mi vanno bene e che, quando succedono i disastri, è quasi sempre colpa mia.  
     
     
 
Capodanno tragico
 
     
  Insomma, mi assumo le mie responsabilità. Di questo tragico Capodanno tuttavia le cause remote (ci sono sempre nella storia, le cause remote intendo) vanno cercate nella neve, cioè nella mia difficoltà a stare nella neve con gli sci. Sono dieci anni che d'inverno vado in montagna. Parto col cuore gonfio di speranza perché ogni anno spero che sia la volta buona; non diventerò un campione, mi dico, ma un decente sciatore sì. Anch'io percorrerò con eleganza e disinvoltura le piste candide e affronterò con discreto ardimento quelle discese che mia moglie e i miei figli non fanno più da anni perché sono troppo facili. Almeno tre ore di sci al giorno, questo mi dico, vita sana.. vitto adatto all'attività sportiva, niente fumo, alcol, mens sana in corpore sano con tutto quel che segue.  
     
     
 
Danni e beffe
 
     
  Be', mi trovo sempre nella neve fino al collo. Mentre arranco per la salita o tento lo scodinzolo ecco che "ammiratori" travestiti da frecce volanti mi salutano con cordiali «Ehi, guarda il Tognazzi... Forza Tognazzi che stasera arrivi» e via beffeggiando. Cosa deve fare uno? Si blocca, i sogni cadono, la volontà cede, si sente ridicolo. E cade. Certe volte cade dallo skilift e il ricordo ancor oggi mi pesa. Il malvagio seggiolino si era staccato di colpo e mi aveva letteralmente infilato nella neve. Ero dentro fino alle ascelle, mi stavo congelando con regolarità, come nel freezer, e intanto ilari gitanti mi sfilavano sopra (il loro skilift non si era staccato) e mi lanciavano motti e frizzi di "ogni" genere.  
     
     
 
In salvo?
 
     
  E non uno che pensasse a darmi una mano per schiodarmi dal buco di neve. Mi sono rifugiato in cucina. Nella cucina del grande albergo dove stavamo per le feste di fine d'anno, una grande, attrezzatissima cucina dove stavo caldo, sicuro: finalmente sul mio terreno. Era la vigilia di Capodanno; mi offro (o mi chiedono e io accetto, non ricordo) di preparare il menu per il cenone. Fuori un grande cartello: "Cenone ideato da Ugo Tognazzi" (L. 30.000 per gli ospiti dell'albergo, 35.000 per gli altri. A testa). Cosa promette il cenone "ideato" da Ugo Tognazzi? Sia chiaro; ideato, studiato, calcolato con scientifica precisione, calibrato nell'alternanza dei sapori, odori, pesi; ogni aspetto preso in seria considerazione, compreso quello estetico. Niente antipasti, che tagliano le gambe allo stomaco, solo uno stuzzichino di prosciutto e melone (quello invernale di Cantalupo). Un piatto da haute cuisine, Risotto allo champagne, con il rituale dello spumeggio che è parte essenziale di questa portata. Senza spumeggio è quasi inutile fare questo risotto. Linguine al salmone affumicato con panna, tanto salmone, giusta dose di panna: il salmone affumicato non è un ingrediente facile, va trattato e legato come si deve. Faraona al melograno, connubio di agro e di dolce, aromi e colori. I chicchi del melograno che risplendono come una cascata di rubini sul delicato volatile adagiato come un'odalisca sul letto di pietre luccicanti... Gran finale con Macedonia flambée servita a lume di candela... Che ne dite?  
     
     
 
“Cenone ideato da Ugo Tognazzi”
 
     
  Sala smagliante di luci e decorazioni, tavoli imbanditi con sfarzo discreto, gli ospiti lieti attendono la prima entrée. Prosciutto di Parma e melone di Cantalupo. Una fetta di prosciutto, tre fette di melone. La fetta solitaria da troppo tempo adagiata sul melone, zuppa degli umori zuccherini, floscia come uno straccetto. Una forchettata e oplà: dall'antipasto alla frutta in un colpo solo. Il cuore mi si stinge un poco... ma non lo sanno questi qui che per ogni fetta di melone ci vuole una fetta di prosciutto e che il tutto va servito fresco, ben fresco?  
     
     
 
Via Crucis
 
     
  Seconda entrée: risotto allo champagne... Ma cosa fanno quei disgraziati di camerieri? Si nascondono dietro il paravento per stappare le mignon di champagne? Ma lo spumeggio si deve vedere! Fa parte del rituale! Sui tavoli arriva riso in brodo di champagne. Crudo, completamente crudo. Ottimo, inebriante, il profumo. Terza entrée (ma ormai sono stazioni della mia Via Crucis): linguine al salmone affumicato. Aroma sublime, aspetto piacevole ancorché troppo rigido. Non c'è la panna, manca il prezioso legante fra la pasta e il salmone. In compenso, ce la caviamo con una (e dico proprio una) forchettata a testa. Non avevano calcolato bene le dosi. Quarta entrée: salmone fresco in bella vista, vassoio gigantesco nel quale sta adagiato un pesce maestoso. Sarebbe stato bello vederlo ancora tutto intero, con tutte le sue decorazioni di salsa. Ma lo portavano sulle spalle, come una bara. Ai primi 10 commensali arriva caldissimo, quasi bollente; per altri cinquanta è tiepido, al duecentesimo si offre freddo, al trecentesimo convitato giunge gelato, anche perché gli ultimi cenano sul balcone innevato, sotto il cielo limpido. Quinta entrée: faraona al melograno. Un'anatra, una volgarissima anatra affetta, sembra, da escrescenze e bubboni. I chicchi del melograno sparsi con avarizia qua e là sulla pelle giallastra, con vuoti paurosi tra un chicco e l'altro. Dov'è la mia cascata di rubini, dove il luccichio delle pietre preziose? A mezzanotte vengo fatto oggetto di delicate attenzioni: mi tirano forchette, tovaglioli, bucce di arancia. Alla fine sono sepolto dalle palline e dai cotillon forniti dall'albergo per festeggiare il Capodanno. Mia moglie mi salva trascinandomi per vie segrete fino in camera. Non so che effetto abbia fatto la macedonia flambée a lume di candela.  
     
     
 
Esame di coscienza
 
     
  Mi chiederete: dov'è la tua colpa? Eccola, sono due:  
     
  1) Presunzione: non si può preparare un menu di questo genere per 300 persone. Ci vogliono cose piu semplici e che non richiedano interventi manuali all'ultimo momento, come lo spumeggio.  
     
  2) Incuria: non si può dare disposizioni accurate, studiare la strategia del menu e poi andarsene. Bisogna stare in cucina, assaggiare, intervenire con le tattiche alternative nei casi di portate difficili o andate a male. Come sul campo di battaglia, insomma.  
 
     
   
   
 
 
 
A TAVOLA CON UGO
 
 
NELLA CUCINA DI "UN DUE TRE"
 
 
UGO E BENITO
 
 
CREDENZIALI E ONOREFICENZE
 
 
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