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BIOGRAFIA
  - DICONO DI LUI / Paolo Villaggio
 
     
 
     
 
Paolo Villaggio  

Conversazione con
PAOLO VILLAGGIO

 
 
     
  Non ricordo esattamente in che anno ho incontrato per la prima volta Ugo Tognazzi. Vediamo... potrebbe essere... sì, potrebbe essere il '61 o il '62. A quell'epoca, io facevo un mestiere speciale: facevo il "delfino". A Genova si chiamavano così quei commercianti di mobili o di formaggio grana che seguivano la scia delle compagnie di rivista e delle ballerine che ci lavoravano, come i delfini seguono la scia delle navi. Di queste mitiche ballerine, Tognazzi all'epoca ne aveva già sposate due o tre, una delle quali era la bellissima Pat O'Hara, la madre di Ricky; e così si era fatto una fama di rubacuori e casanova, ben prima della fama di gourmet che si fece in seguito, e che d'altronde era anche quella ben meritata: aveva duemila libri di cucina, e dopo La grande bouffe era diventato amico di Bocuse, capo spirituale dei grandi chef francesi, categoria umana di uno snobismo genetico. Io ero diventato suiveur o delfino per amore di un'italiana, attrice di teatro e non ballerina. L'avevo conosciuta al teatro Stabile di Genova di Luigi Squarzina e Ivo Chiesa, e mi piaceva molto. Quell'anno era stata scritturata da Lucio Ardenti, allora produttore della compagnia di Tognazzi.  
     
  Questa ragazza mi disse: «Quando vado in tournée, magari qualche volta ci vediamo, non so, a Milano, a Roma». E io andai a trovarla a Roma, al teatro Parioli, che allora non era ancora un feudo di Costanzo. Lì recitava con Tognazzi in "Gog e Magog", di Gabriel Arout. Nonostante il titolo preso dall'Apocalisse di Giovanni, Gog e Magog era una commedia boulevardier ricalcata sulla Pulce all'orecchio di Feydeau, quella dove ci sono il signore e il facchino che si chiama Poche, da cui "pochade". Era la storia di due gemelli, uno povero e scemo, l'altro capitano d'industria; una storia di scambio di persona. Così, facendo il delfino di quella ragazza, mi vidi parecchi "Gog e Magog". Ugo, che era allora un giovane uomo sulla trentina, in scena era bravo, un trascinatore; anche acrobatico, tant'è vero che riusciva a fare la bandiera in scena, con relativa suspense del pubblico: "Casca o non casca?". Insomma, dopo lo spettacolo questa ragazza mi fa: «Andiamo a mangiare da Gigi Fazi?», e io che non sono romano rispondo: «Perché no, andiamo». Ma quando arriviamo, scopro che da Gigi Fazi era il ristorante dove andava tutta la gente di teatro dopo lo spettacolo. Così, mi trovo in mezzo a tanti attori che conoscevo solo per averli visti in scena, sentendomi anche un po' a disagio, perché mi chiedevo: «Io che ci faccio, qui?». Avevo venticinque anni, non avevo ancora cominciato a recitare, né ci avevo mai seriamente pensato. Il teatro mi piaceva molto, questo sì, e lo frequentavo assiduamente; quello era il periodo dei mitici spettacoli brechtiani allestiti da Strehler al Piccolo Teatro, e ricordo ancora un mio avventuroso viaggio Genova-Milano in Cinquecento, sotto la neve, per vedere uno Schweyk e la Seconda Guerra Mondiale.  
     
  Insomma, seguivo con passione questa bella ragazza che era anche una buona attrice. Vidi che Ugo era molto bravo, anche se risentiva un po' della mancanza di Vianello, un attore eccezionale, d'una comicità irresistibile e anche un po' aliena, in Italia, perché con quella flemma tutta sua sembrava un anglosassone. Li ricordo insieme in "Barbanera bel tempo si spera" di Scarnicci e Tarabusi, con Vianello che scendeva dal cielo travestito da neonatone (anche se sembrava piuttosto un pipistrello gigante) ed era indimenticabile... Anche in televisione, nel loro "Un, due, tre", il punto di riferimento per il pubblico era Vianello, mentre Ugo faceva il tonto: "Gregorio il gregario", il bergamasco ubriaco... Perché allora il comico doveva per forza essere tonto, con gli occhi storti da tonto e il costume da tonto. Il primo che violò questa regola fu Walter Chiari, che non solo era un bel ragazzo, ma si presentava in scena con un maglione rosso, il suo "ciuffo ribelle su una fronte intelligente", e piaceva da morire alle donne. Walter Chiari era un maestro della passerella, anche se era verbosissimo, ci provasse oggi, a raccontare una barzelletta per mezz'ora, lo caccerebbero. Ugo, invece, che in passerella era asciutto, stringato, spesso duellava a distanza con Walter. Diceva al pubblico: «In questo teatro c'è stato Walter Chiari. Io il maglione rosso non ce l'ho e mi vesto normale, ma adesso vi racconto la stessa barzelletta che vi ha raccontato lui, ci metto un decimo del tempo, e scommetto che vi faccio ridere uguale» e così si preparava una disfatta, perché allora Walter era il numero uno. Insomma, la ragazza e io siamo da Gigi Fazi. Dopo un po' arriva anche Ugo, viene direttamente al nostro tavolo, e comincia a fare una benevola scenata di gelosia alla ragazza (era sempre un po' geloso delle donne che recitavano con lui). «E tu chi sei, da dove vieni, ah, sei genovese? Allora sono fregato, i genovesi hanno una tenacia...» Morale, l'abbiamo ereditato. Aveva un gruppetto che lo aspettava al tavolo, ma ha passato la serata con noi. È stata quella, la prima volta che l'ho incontrato; e in quell'occasione ha dimostrato, a me che non ero nessuno, un'affabilità, una disponibilità, una modestia, un autentico piacere di stare con noi invece che con l'entourage che l'avrebbe tenuto a far chiacchiere fino a tarda notte, che mi colpirono e mi piacquero molto. Poi, ci siamo persi di vista per molti anni.  
     
  Nel 1966 avevo cambiato vita. Ero stato scritturato da Ivo Chiesa, direttore dello Stabile di Genova, per fare un teatrino di cabaret a piazza Marsala, dove ci si esibiva io e Fabrizio de André, lui musiche e io monologhi, e in città la cosa aveva avuto parecchio successo. Poi, una sera, Enzo Jannacci che doveva andare in scena allo Stabile si ammalò, e Ivo Chiesa mi disse: «Fai qualcosa tu». Fu una serata trionfale. E in quella serata trionfale, a fondo sala c'era un omino coi baffi. Questo omino coi baffi, che si chiamava Maurizio Costanzo, mi aspettò con molta pazienza dopo lo spettacolo, e mi disse: «Senta. Se lei viene a Roma, io le garantisco un grande successo». Io ho una moglie un po' sciroccata, come dicono qui a Roma. Quando le ho chiesto: «Che facciamo, Maura? Andiamo o non andiamo?», lei mi ha risposto così: «Sempre lasciare il certo per l'incerto». E siamo andati. Io lascio il certo per l'incerto, e Costanzo, politico abilissimo anche se privo di capacità creative, mi organizza il debutto in un teatrino che si chiamava il "Sette per otto". Quella sera c'era Flaiano, c'erano Garinei e Giovannini, c'era Moschin, c'era insomma tutto il bel mondo del teatro leggero italiano, perché Costanzo aveva passato parola che c'era un mostro da vedere. La sala era angusta, strapiena, irrespirabile. Tognazzi, che era un insofferente, uscì in strada, non se ne andò perché era venuto con Ferreri, che data la sua mole inamovibile era rimasto in sala. In strada c'era anche mia moglie, che lui non conosceva. Così, mentre Tognazzi si fuma una sigaretta, mia moglie attacca discorso e gli chiede: «Come mai lei è fuori?». E Ugo: «Ma, guardi, sinceramente sono uscito perché quel tizio io l'ho già capito, e secondo me non ha speranza. È aggressivo, tratta male il pubblico... Come pensa di farcela, così, in una città come Roma? No, guardi, io di esperienza ne ho tanta, e non ce la farà mai. Non ha speranza». Fu questo il suo primo giudizio su di me. Poi ho fatto televisione, sono diventato un personaggio televisivo insieme a Cochi e Renato; era una televisione piena di invenzioni e di innovazioni, una televisione di culto come quella che avevano fatto lui e Vianello con "Un, due, tre". E, a distanza di tempo, abbiamo spesso ricordato quella notte in cui aveva dato quel giudizio tanto sballato sulle mie prospettive di riuscita.  
     
  Morale, siamo diventati amici. Prima abbiamo cominciato a frequentarci spesso. Andavamo nella sua casa di Velletri il sabato sera, dormivamo lì e ritornavamo a Roma dopo pranzo; diventò un'abitudine, questa gita del sabato a casa di Ugo. Poi, siamo diventati amici nel vero senso della parola, e Ugo è entrato a far parte integrante della mia vita. Lui aveva una casa a Porto Rotondo e io anche, al tempo che in Sardegna non c'erano le folle oceaniche di adesso. C'erano anche Luciano Salce, Gassman, Renato Salvatori, e soprattutto Marco Ferreri con la sua barca, il mitico Cochecito. Insomma, è nata una buona, vera amicizia, confortata dal fatto che prima era famoso lui, poi sono diventato famoso anch'io, e tra gente che fa questo mestiere, c'è la tendenza a frequentare i pari grado. Gli inferiori fanno sempre la figura dei comprimari, dei meno fortunati, quindi devono recitare un ruolo abbastanza sgradevole. È cominciato un periodo molto divertente, per questo nostro gruppetto nel quale ciascuno aveva il suo ruolo. Ugo una cosa non sopportava nel modo più assoluto: che qualcuno gli dicesse che cucinava male. Così, appena lui diceva: «Ragazzi, oggi faccio da mangiare in barca», noi subito cominciavamo a scambiarci le occhiate di panico. Poi Ferreri andava in avanscoperta in cucina, assaggiava i piatti, e ci diceva quali non dovevamo assolutamente toccare, perché va anche detto che certe volte Ugo faceva dei piatti paradossali.  
     
  Come la volta che ha detto: «Stasera faccio Gigetto». Chi era Gigetto? Be', quella di Gigetto è una storia che solo Ugo avrebbe potuto inventare e vivere. Un giorno mi telefona da vicino Parma, e mi fa: «Aspettatemi, eh? Arrivo a Roma verso le dieci, e visto che ho ucciso un maiale...». «Come hai ucciso un maiale?!» «Ma sì, Gigetto. Mi si è buttato sotto la macchina, forse si voleva suicidare.» Insomma: ha messo sotto un maiale con la macchina, e il contadino naturalmente se l'è fatto ripagare. Una volta che se l'era comprato, perché lasciarlo al contadino? Così l'ha caricato in macchina; e siccome aveva una macchina sportiva a due posti, ha messo a sedere il maiale Gigetto al posto del passeggero, e se l'è scarrozzato fino alla sua casa di Torvajanica, dove aveva un immenso congelatore che è diventato il mausoleo di Gigetto. Gigetto buonanima l'ha fatto durare dei secoli, Ugo. Com'è noto, a Torvajanica Ugo bandiva ogni anno il torneo di tennis Tognazzi, vinto praticamente sempre da Gassman (Ugo pregava i tennisti più bravi di lasciarlo vincere, perché una vittoria di Gassman gli garantiva la notizia sul giornale). Durante le sere del torneo, Ugo ospitava sempre molta gente di spettacolo. Una sera, insieme a Boncompagni c'era anche la Carrà, che non era ancora diventata quella perenne istituzione della Tv che è oggi. E Ugo le fa: «Stasera ti faccio Gigetto». Non so quanto tempo fosse passato dalla morte di Gigetto, ma non erano né giorni né settimane. Ugo si mette ai fornelli, riesuma Gigetto e, visto che aveva in casa delle uova di pasqua avanzate, ha la brillante idea di escogitare il maiale al cioccolato. Ingenuamente, la Carrà si mette a mangiare Gigetto al cioccolato, e si profonde in complimenti estasiati: «Ma è meraviglioso! Ugo, questo è il paradiso!». Io e Ferreri la guardiamo, capiamo che è caduta nella trappola di Gigetto, vediamo che il suo colorito comincia a virare al verde, e diciamo a Ugo: «Ugo, ma ti rendi conto che la stai uccidendo? Guarda che stavolta non la passi liscia! Garantito che ti denunciano!». Poi la Carrà, forse grazie al suo stomaco d'acciaio, se la cavò con un mal di pancia, e Ugo sfuggì alla galera.  
     
  Ma l'idea di Ugo trascinato in tribunale non morì con la faccenda di Gigetto e della Carrà. Un certo Massimo Gargia, uomo di mondo e playboy di quegli anni, aveva inventato il premio all'uomo più elegante d'Italia, e lo fece assegnare a Ugo. Ora Ugo era tutto, ma elegante proprio no. Da buon parsimonioso, riciclava gli abiti di scena dei film che girava, e finiva per mettersi, ad esempio, anche i vestiti de "Il vizietto", cioé roba vistosa, volgare, sbrilluccicante, un po' da travestito. Allora, con Ferreri gli mandiamo un telegramma: «Inorriditi e stupefatti incredibile e ingiustificabile riconoscimento da lei ricevuto adiremo le vie legali». Firmato ASI, Associazione Sarti Italiani. Ugo si precipita dall'avvocato, e la sera a cena, credendoci all'oscuro, ci racconta tutto. «Ma vi rendete conto, questi mi vogliono denunciare! Io volevo telefonare, spiegare che l'idea non è stata mia, ma l'avvocato mi ha detto, autorevole: 'Tognazzi, sa che facciamo noi? Niente facciamo. Stiamo fermi come gatti di marmo'.» E invece fummo Ferreri e io, che a prezzo di sforzi eroici dovemmo restare fermi come gatti di marmo per non rotolarci in terra dalle risate.  
     
  Ugo poteva anche essere permaloso, per esempio quando lo prendevamo in giro per la sua cucina, alla quale teneva enormemente; ma non serbava mai rancore. Dai tanti, tantissimi episodi di vita in comune con Ugo ho ricavato una certezza, su di lui; e cioé, che Ugo era un uomo intelligentissimo. Ignorante come una talpa, eh? Ma intelligente, intelligente come pochi. Mai avrebbe fatto come l'italiano medio, che neanche sotto tortura dice di una cosa che non sa un semplice e onesto «non lo so», e si espone alle peggiori figuracce pur di fingere di saper tutto, di essere d'accordo con l'interlocutore più potente o più famoso. L'italiano medio parla bene solo di calcio, perché leggendo unicamente le pagine sportive dei giornali il calcio è l'unica materia che conosce a fondo. Ugo, che ha disegnato un indimenticabile personaggio di italiano medio, in questo era tutto tranne che un italiano medio. Una sera da Costanzo c'erano lui, Zecchi e Sgarbi. Zecchi e Sgarbi aprono un impressionante fuoco di sbarramento di paroloni sull'argomento della serata, del quale mi ricordo zero. Tognazzi, zitto. La platea del Costanzo show è una platea di massaie di un'ignoranza abissale. Zecchi e Sgarbi avrebbero anche potuto parlare in turco o in ungherese, per quel che ci capiva il pubblico. Io guardavo Tognazzi, che continuava a non aprire bocca. A un certo punto, Costanzo gli fa: «Ma scusi, Tognazzi, lei non ha detto una parola». E lui, indimenticabilmente: «Mi scusi, dottor Costanzo», e non l'ha chiamato "dottore" con ironia, l'ha chiamato dottore perché quella sera e in quel posto, era Costanzo a tenere la barra del timone, e in provincia al capo si dà sempre del dottore. «Mi scusi, dottor Costanzo, ma io, data la mia ignoranza» e qui c'è la sigla della sua intelligenza, del suo coraggio, della sua semplicità, «data la mia ignoranza, non ho ancora capito un cazzo.» Esplosione nucleare del pubblico, salvato, vendicato e riscattato da Ugo. Ecco: Ugo è uno che in vita sua non ha mai barato.  
     
  Una volta andammo in Provenza con Gassman. Andiamo a mangiare in un albergo che era anche uno dei più rinomati templi della cucina francese. Gassman era già un attore di fama internazionale e Ugo, dopo "La grande bouffe", in Francia era una star. Accoglienza regale, tappeti rossi, il miglior tavolo, salamelecchi. Ordiniamo un pranzo barocco. Finite le consultazioni con il capocameriere, arriva solennemente il feudale sommelier, con relativo codazzo di vassalli. Colpo di scena: Gassman ordina uno Chàteau Laffitte Rothschild, il bordeaux più caro del mondo (una bottiglia, quattro milioni di lire, di allora, cioé anni Settanta). Alzando un sopracciglio, il sommelier galvanizza i suoi vassalli, che dalle segrete del maniero recano in processione l'inestimabile bottiglia, deposta nel cestino come Gesù bambino nella mangiatoia. Ha inizio il rituale bizantino della stappatura. Il sommelier mostra l'etichetta, svolazza il tovagliolo sulla bottiglia, circoncide la ceralacca, stappa come disinnescando una bomba inesplosa, risvolazza il tovagliolo sulla bottiglia, annusa il tappo, lo depone nel piattino di porcellana, caraffa minuziosamente il vino illuminando con la candela il collo della bottiglia per monitorare l'eventuale bruscolo di fondiglio, e trionfalmente, con una voluta barocca, versa il vino a Gassman. Distaccato, altero, Gassman assaggia. L'intera tradizione del teatro classico europeo si trasfonde in una pausa magistrale. Poi, con un sottotesto di lieve malinconia, il giudizio definitivo: «Sa di tappo». Il sommelier incassa da par suo, e inchinandosi con ossequio monacale al sacro cliente, ricomincia senza batter ciglio l'intera celebrazione. Tutto si svolge esattamente come prima, tranne che in sala aleggia una suspense insostenibile. Ugo suda, si agita sulla sedia. Gassman, da grande, grandissimo attore, non batte ciglio. Viene il momento del verdetto. Gassman si bagna le labbra, e in controtempo emette la sentenza: «Sa di tappo». Il sommelier vacilla, e capisce che per lui, a questo tavolo si rilancia troppo alto. Fa chiamare il direttore. Il richiamo si propaga per la sala. Ugo è nel panico assoluto e mormora: «Ci denunciano! Andiamo via, ci denunciano, ci mandano alla Caienna!». Si materializza il direttore, ci guarda in faccia, prende il bicchiere, assaggia, e guardando fisso Gassman decreta: «No!» e se ne va. Ugo, ormai in deliquio, trasecola per il sollievo: la beffa è finita, e noi siamo ancora lì, sani e salvi. Perché a Ugo piaceva giocare e scherzare, ma nella sua bonarietà, nella sua semplicità, non reggeva la beffa a questi livelli di rischio e di estremismo.  
     
  Perché Ugo era molto diverso dall'immagine che dava di sè, quella di un carnoso, di un maiale, di un cinico; quando invece, in amore, era un uomo di grande tenerezza; uno che quando si innamorava partiva sempre battuto, con dei turbamenti, delle delicatezze, un'attenzione per le sfumature, che solo chi gli stava vicino ha potuto conoscere bene. Con Ugo abbiamo passato tanti momenti belli in gruppo, a ridere e scherzare con gli amici; ma anche molti momenti da soli. C'è n'è uno che mi ricordo bene, perché di lui racconta una cosa importante. Eravamo nella sua casa di Velletri, e passeggiavamo nel parco. Ugo mi mostrava gli alberi che aveva appena fatto piantare. «Visto che belli?» mi disse. «Peccato che non li vedrò crescere.» E me lo disse con serenità, con pacatezza, con un sorriso.  
     
  Ugo era un uomo onestissimo, mai furbo, mai ruffiano. Amava ridere, scherzare e stare insieme agli amici ma era più chiuso di quanto non si supponesse.  
     
  Difficilmente comunicava i propri stati d'animo. Ora che non c'è più io che ho diviso con lui trent'anni della mia esistenza, mi sento orfano.  
     
  Tu Gianmarco mi hai detto che tuo padre è come non fosse morto perché te lo porti dentro. E oggi, a poche ore dalla sua fine, hai messo gli occhiali di tuo padre per venire in chiesa. Lui avrebbe riso di questo tuo gesto.  
     
  Ugo rideva su tutto. E su tutto esagerava trasformando ogni piccolo episodio quotidiano in una occasione di autoironia. Il fatto che a Parigi avesse perso l'aereo perché non trovava un taxi cercato lungamente diventava nel suo racconto un epico viaggio a piedi con le valigie verso l'aeroporto dove poi sfinito era caduto a dormire.  
     
  Era fuori di misura, Ugo, ma in questo stava la sua forza. Se si potesse, adesso che siamo qui in tanti, tanti quanti nemmeno lui avrebbe sperato, sarebbe bello cantare per lui in coro “Come porti i capelli bella bionda”. Ma non si può.  
     
  Una sola volta abbiamo parlato della morte. Gli avevo chiesto se credeva nell'aldilà. Aveva risposto di crederci con fatica. «Non so cosa ci sia nell'aldilà, Ugo, ma so che te la caverai.»  
     
  Sul registro della camera ardente: «Ciao, Ugo, ci vediamo dopo.»  
     
 
     
   
   
 
 
 
LA VITA DI UGO
 
 
UGO RACCONTA
 
 
DICONO DI LUI
     
  Alberto Sordi
     
  Bernardo Bertolucci
     
  Coro della piccola città
     
  Diego Abatantuono
     
  Donata Tarabusi
     
  Edwige Fenech
     
  Elena Giusti
     
  Enrico Lucherini
     
  Enrico Medioli
     
  Furio Scarpelli
     
  Lorenzo Baraldi
     
  Maurizio Nichetti
     
  Michele Placido
     
  Morando Morandini
     
  Ornella Muti
     
  Paolo Villaggio
     
  Piero De Bernardi
     
  Raimondo Vianello
     
  Stefania Sandrelli
     
  Tullio Kezich
 
 
LA CRITICA E UGO
 
 
UGO TOGNAZZI E RAIMONDO VIANELLO
 
     
 
 
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