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CINEMA
  - UGO REGISTA / Costume e società nel cinema di Ugo Tognazzi
 
     
 
     
 
COSTUME E SOCIETA' NEL CINEMA DI UGO TOGNAZZI (di Alessandro Bencivenni)
 
1961. Tognazzi esordisce nella regia proprio agli inizi degli anni Sessanta: è il periodo del boom economico, forse il decennio socialmente più stravolto e moralmente più deplorevole del dopoguerra. L'Italia rincorre il benessere ad ogni costo e senza alcuna remora: ciò darà ampia materia agli autori di commedia per dare il meglio di sé nel ritrarre il peggio degli altri. I protagonisti di "Il mantenuto" hanno in comune l'insoddisfazione per il proprio status sociale: Tognazzi è un impiegato di modestissime attitudini, che dimostra verso le macchine da scrivere e le calcolatrici lo steso impaccio che al giorno d'oggi qualche suo collega ancora manifesta verso i computer. Con le ragazze si spaccia da direttore e cova segreti desideri di grandezza. Vive nell'elegante quartiere romano di Coppedé, ma confinato in un sottoscala. È inquilino di una vedova molto consolabile (Marisa Merlini), della quale alla fine del film diventerà il mantenuto a cui si fa riferimento nel titolo. Quando facciamo la sua conoscenza, invece, è intento a corteggiare le due giovani protagoniste femminili. Ilaria Occhini è una ragazza di provincia (vive a Ronciglione, alle porte di Roma) che si spaccia per infermiera ma in realtà si prostituisce per arricchirsi rapidamente. Le due attività hanno del resto una comune rilevanza sociale: «Il tuo, più che un lavoro è una missione», si dice in una battuta del film giocando volutamente sul doppio senso. La ragazza non ha uno sfruttatore che la costringa, né alcun lacrimoso alibi dietro il quale giustificarsi: semplicemente si vende perché, sono parole sue, «è il lavoro più facile che ci sia». All'epoca le prostitute si chiamavano ancora passeggiatrici e questo ha suggerito forse a Tognazzi la curiosa (e graziosa) sequenza iniziale del film, nella quale seguiamo le gambe della ragazza per le strade del paese, sul trenino che la porta in città e via via fino ai vialoni della capitale dove batte il marciapiede. L'altra protagonista femminile (Margarete Robsahm) è invece una emigrata del nord che non fa mistero delle sue ambizioni di carriera: lavora come segretaria di un industriale farmaceutico e non esita ad accettare la sua corte e i suoi regali pur di soddisfare le proprie ambizioni di scalata sociale: finirà per entrare in un giro di prostituzione d'alto bordo nascosto dietro l'attività di un istituto di bellezza. È una copertura ancora utilizzata oggigiorno e che vediamo ricorrere periodicamente sulle cronache attuali. Oggi sono cambiate ovviamente le tariffe, ma il film ci aiuta a fare due conti: la Occhini, come umile prostituta da strada, ha messo da parte novecentocinquantamila lire, ossia il doppio, come spiega il personaggio di Tognazzi, di quanto lui guadagni in un anno come impiegato. Obiettivo di tali risparmi è l'acquisto di una automobile, che all'epoca appare ancora saldamente in cima ai simboli della scalata sociale. Oltre che come status symbol, la macchina si dimostra una fondamentale risorsa nelle questioni amorose: in una delle sequenze più divertenti del film, un temporale estivo si abbatte sulla pineta di Ostia e il luogo, che sembrava deserto, si rivela improvvisamente popolato di coppiette nascoste dietro i cespugli che schizzano fuori per scampare all'acquazzone. Tutte tranne una coppia di privilegiati al riparo nella loro Seicento. Amore e benessere, amore e denaro: una società disposta a prostituire i sentimenti ai consumi. È questo il tema del film, che lo affronta con un umorismo cinico e un pò dolente e un taglio morale moderno e privo di retorica. Come accadeva in quegli anni, nei quali ogni copione passava abitualmente di mano in mano, la sceneggiatura del film porta molte firme: oltre allo stesso Tognazzi, hanno collaborato Luciano Salce e Castellano e Pipolo. A guidare la cordata degli sceneggiatori, due navigati umoristi della vecchia guardia: Scarnicci e Tarabusi. Sono tutti autori di cosiddetto spettacolo leggero, lontani da ambizioni estetiche e ardori ideologici: eppure il copione conta qualche frecciata politica e azzarda un parallelo fra sfruttamento della prostituzione e del lavoro: «Il vero mantenuto è lei, signor presidente», proclama, ma solo nella sua fantasia, Tognazzi al suo padrone, «mantenuto dai suoi operai e dai suoi impiegati». Insomma, il lavoro come prostituzione sociale: non c'è male dalla penna di un gruppo di gruppo di autori senza alcuna posa autoriale.
 
1967. Sono passati sei anni dal primo lungometraggio di Tognazzi e l'Italia che lui ritrae con rinnovato sarcasmo ne "II fischio al naso" ha compiuto nel frattempo lunghi passi sulla strada del consumismo come modello di sviluppo economico. L'attore-regista veste i panni del proprietario di una cartiera, il cui motto è consumare e distruggere. Esprime compitamente il suo pensiero in proposito a una delegazione di funzionari del terzo mondo, ai quali si rivolge coniugando paternalisticamente i verbi all'infinito: «Più consumare, più produrre. Più produrre, più lavorare. Più lavorare, più arricchire. Più arricchire, più consumare. Questo essere mio imperativo economico. Mio prodotto essere funzionale ma adoperare una sola volta. Poi buttare, distruggere. Questa distruzione garantire meraviglioso rinnovarsi della domanda». A questo proposito, l'industriale è in conflitto con il padre, fondatore della cartiera, che ragiona invece all'antica: contesta il materialismo in nome dei valori spirituali ravvivati dall'atmosfera post-conciliare e, se fosse per lui, vorrebbe produrre soltanto santini e immagini sacre. Benché si proclami fautore della modernizzazione, anche il figlio interpretato da Tognazzi stenta però a tenere il passo coi tempi. Vive in una casa disegnata e arredata all'insegna del razionalismo, si circonda di ritrovati tecnologici ma non conosce le lingue e si trova così un passo indietro rispetto alla moglie (Olga Villi) e alla figlia, che si mostrano molto più aggiornate di lui. L'emancipazione femminile contempla una maggiore libertà anche nei costumi sessuali: quando la figlia resta incinta, in famiglia non se ne fa un dramma e ci si limita a mandarla ad abortire all'estero. La crisi per Tognazzi arriva invece con un banalissimo disturbo: il fischio al naso che dà il titolo al film. Per curarsene, l'uomo si ricovera in una clinica di lusso che si rivela via via una struttura sempre più claustrofobica e letale, nella quale rimarrà imprigionato per sempre. L'affollato gruppo di sceneggiatori contempla stavolta, oltre a Tognazzi e a Scarnicci e Tarabusi, l'apporto di Alfredo Pigna e soprattutto di Raphael Azcona, il partner abituale di Marco Ferreri (che appare peraltro nel film nei panni di un dottore). È appunto Azcona ad orientare la storia verso una direzione metaforico-esistenziale, che si allontana dai toni consueti della commedia di costume. Così, mentre gli altri autori della commedia italiana classica prendono di mira la sanità come specchio di malcostume (Il medico della mutua di Zampa uscirà di lì a pochi mesi), Tognazzi preferisce trarne pretesto per una vicenda più surreale e dai toni un pò pretenziosi di sapore kafkiano.
 
1969. Sono gli anni della contestazione e nel film "Sissignore" fa capolino il libretto rosso di Mao Tze Tung. Ma nella deformazione grottesca e preveggente di Tognazzi il pensiero di Mao appare prematuramente sfruttato come slogan pubblicitario, la contestazione è già diventata oggetto di consumo e lo spirito rivoluzionario è stato imbottigliato in una bibita gassata: «La bevanda della protesta. La bibita giovane per i giovani. La contestazione in bottiglia. È un gesto rivoluzionario contro i tradizionali dissetanti». Si tratta dell'immaginaria Piper Cola, bevanda virtuale prodotta nello stabilimento fantasma intestato all'uomo di paglia impersonato da Tognazzi. Lo stabilimento infatti non è stato concepito per produrre, ma per essere venduto alla concorrenza americana: a questi ultimi, infatti, acquistare la ditta viene a costare meno del danno economico che subirebbero se il prodotto rivale venisse effettivamente lanciato sul mercato. È solo una delle truffe architettate dal diabolico avvocato impersonato da Gastone Moschin e alle quali il succube Tognazzi fa da prestanome. Gli autori del film (oltre a Tognazzi stavolta partecipano fra soggetto e sceneggiatura Franco Indovina, Luigi Malerba e il grande Tonfino Guerra) intendono fare satira a tutto campo sul vizio nazionale del servilismo. L'acquiescenza ai potenti si estende dal piano professionale a quello privato: al posto della abusata situazione del sottoposto che concede la moglie come amante al padrone per di fare carriera, gli autori scelgono la strada più originale di un padrone che fa sposare l'amante a un dipendente per sviare i sospetti della moglie: di qui situazioni e battute paradossali come quella dei due coniugi pro-forma che si incontrano di nascosto, con Tognazzi che scongiura un collega che li ha sorpresi: «Non dica all'avvocato che mi ha visto con mia moglie». La satira di costume assume toni volutamente caricaturali e sopra le righe, una scelta di tono che è pienamente nello stile degli anni Sessanta: se in "Sissignore" Tognazzi cede l'orecchio destro al padrone, sei anni prima ne Il boom di De Sica e Zavattini, Alberto Sordi non aveva forse fatto lo stesso con l'occhio sinistro?
 
1976: "Cattivi pensieri". La morale corrente si è fatta più permissiva, tanto da lasciar esibire senza risparmio sullo schermo le procaci forme della bella Edwige Fenech e persino gli attributi virili di Lue Merenda. Non così elastica in fatto di sesso è la mentalità del protagonista del film: un Tognazzi tormentato dalla gelosia che, come nella più classica delle pochade, rincasando inatteso per un contrattempo trova un uomo nudo nell'armadio. Solo che l'armadio è blindato, poiché custodisce dei fucili da caccia, e il marito assetato di vendetta ne approfitta per chiuderci dentro il presunto amante della moglie. Gli autori del copione (oltre a Tognazzi, il navigato Antonio Leonviola, con un contributo ai dialoghi di Enzo Jannacci e Giuseppe Viola) prendono spunto dall'inossidabile tema del tradimento per satireggiare sull'ipocrisia: scopriremo infatti alla fine che il marito geloso è il vero fedifrago e che la moglie sospettata di libertinaggio, in fatto di sesso la pensa all'antica: «Incredibile: ho ancora bisogno di innamorarmi, come una ragazza di prima della guerra». Il film si concentra insomma sulla sfera privata, anche se sullo sfondo si intravedono delle interessanti notazioni di costume. L'automobile, per esempio, scesa dal podio di status symbol, è declassata ormai ad oggetto di consumo di massa. Esasperato per il traffico e i colpi di clacson, il personaggio di Tognazzi reagisce infatti con queste parole: «Suonatevi le palle, suonatevi! L'avete voluta una macchina a testa, lavoratori? L'Agnelli ve l'ha data la macchina? E allora adesso tenetevela e godetevela». L'attore-regista si diverte a indossare i panni pacchiani di un avvocato reazionario e tangentista: un gregario nel mondo dei potenti, tutti presi a spassarsela nel privilegio e nel lusso, fra crociere e aerei privati, battute di caccia e corse di trotto, gare di sci e gimkane sulla neve. Sullo sfondo si intravede la protesta: lavoratori in sciopero che scandiscono lo slogan «E ora e ora potere a chi lavora», giovani che inveiscono contro l'arroganza dei ricchi (se ne fa portavoce in una sequenza il figlio di Ugo, Ricky Tognazzi) ed altri che sono tentati dalla lotta armata. Infatti, nell'armadio di Tognazzi non c'è rimasto rinchiuso un amante della moglie, ma il figlio ribelle del portinaio che voleva mettere le mani su armi e munizioni. Così, dietro una banale storia di corna fa addirittura capolino l'ombra sinistra del terrorismo.
 
1970. È l'anno della parentesi televisiva di "F.B.I.", la serie TV diretta e interpretata da Tognazzi, che celebra in sei episodi le gesta di Francesco Bertolazzi investigatore, scalcinato detective privato che per pubblicizzarsi sfrutta con disarmante improntitudine l'assonanza fra le sue iniziali e l'acronimo della celebre agenzia investigativa federale americana. La soluzione di modesti casi gialli serve da pretesto a Tognazzi e agli sceneggiatori Age e Scarpelli per ritrarre con sapida ironia i molti vizi e le poche virtù della capitale: emerge infatti il ritratto caricaturale di un generone romano pieno di nostalgici del ventennio fascista (l'episodio "Sparita il giorno delle nozze"), di un manipolo di aristocratici decadenti ("Il ritorno di Ulisse"), di una pittoresca comunità di americani residenti a Roma ("La notte americana"), di un coacervo cafone di speculatori edilizi, tangentisti, lottizzatori e faccendieri assortiti ("Labbra serrate"), di un ambiente sportivo già allora corrotto dall'interferenza degli sponsor ("Getto della spugna"). Nell'episodio "Rapina a mano armata" ci si sposta invece in provincia per affrontare sorridendo un fenomeno drammatico, descritto così da uno degli stessi personaggi: «L'abbandono dei comuni agricoli, specie montani, e la corsa all'inurbamento del giovane che non può più vivere in queste località e sogna Roma, Milano, i denari facili e, preso dall'odio verso tutti, agisce compiendo fatti di cronaca». Insomma, un esempio pionieristico di serialità televisiva di buona fattura, dove il divertimento è sempre accompagnato dall'intento di inquadrare sullo sfondo un problema sociale o un fenomeno di costume.
 
1979. Tognazzi compie cinquantasette anni e comincia a fare i conti con l'età. Ne "I viaggiatori della sera" decide di affrontare il tema della vecchiaia e sceglie la chiave simbolico-metaforica che aveva già adottato ne "Il fischio al naso". Prendendo spunto da un romanzo di Umberto Simonetta e facendosi coadiuvare dallo sceneggiatore Sandro Parenzo, immagina un mondo futuribile dove è vietato invecchiare e, appena si sfiora la cinquantina, uomini e donne vengono rinchiusi in villaggi turistici che servono in realtà alla loro eliminazione per mezzo di uno spietato sorteggio chiamato il "Grande Gioco". È evidente il riferimento al problema della terza età che, con la crisi delle nascite, sta cominciando a trasformare l'Italia in una popolazione di vecchi. Tuttavia nello specchio deformante scelto da Tognazzi si stenta a riconoscere qualcosa che somigli alla nostra società e sembra piuttosto di intravedere un improbabile scenario da Cina paleocomunista: grandi cartelli ricordano il problema della sovrappopolazione ed invitano la popolazione a sterilizzarsi; per fare figli è necessario disporre di una apposita autorizzazione, i consumi sono regolarizzati da tessere ed un regime totalitario ed asetticamente tecnocratico mira a ridurre i bisogni di tutti verso lo stretto necessario. «Lo sai da quanto tempo è finita l'era del superfluo, dell'eccessivo, dell'eccedente, dell'inopportuno, del pleonastico?», rammenta alla madre (Ornella Vanoni) una figlia pedante in divisa grigia e capelli a caschetto. Fra i beni superflui sono annoverati anche i libri, compresa la Bibbia: «È stata per molto tempo un famoso best-seller». Dio viene definito «Uno che una volta contava moltissimo», mentre al momento attuale imperversa un arido laicismo di stato. Insomma c'è qualcosa di stonato, come uno scollamento fra la società reale e la sua deformazione grottesca che finisce per far cadere nel vuoto la satira. Più utile appare invece interpretare questa fantasia sul piano psicologico e personale: troveremo allora gli indizi di una generalizzata mancanza di punti di riferimento («Pensi che si possa ancora dare un giudizio, capire che cosa è bene e che cosa è male?»), di una crisi di valori personali e politici («Non me ne è mai fregato niente della collettività e adesso non me ne frega niente neanche di me»), di un ripiegamento sul sesso come antidoto all'ansia («E' il mercato della scopatitudine: l'Autorità lo considera un alto servizio sociale»). Si intravede infine una difficoltà (propria di Tognazzi come degli altri grandi nomi della commedia italiana in quegli stessi anni) ad accettare i cambiamenti e a relazionarsi con le generazioni più giovani. Di qui un grottesco rovesciamento di ruoli nel quale si mostra e si dimostra che sono i cinquantenni i più adatti a farsi gli spinelli, a parlare alle radio libere, a predicare il nudismo e a praticare le ammucchiate: insomma che i vecchi sono più giovani dei giovani. Tognazzi chiude così la sua carriera di regista tradendo qualche acredine senile nei confronti delle nuove generazioni e trovando invece i suoi momenti migliori nel raccontare il sofferto distacco emotivo del protagonista dalla moglie: congedandosi insospettatamente, proprio lui, spirito anarchico e amante degli eccessi, con una dolente nota romantica.
 
[fonte: COSTUME E SOCIETA' NEL CINEMA DI UGO TOGNAZZI a cura di Alessandro Bencivenni. Tratto dal libro "UGO TOGNAZZI REGISTA"].
 
 
     
   
   
 
 
 
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