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CINEMA
  - UGO REGISTA / Troppo presto, troppo tardi
 
     
 
     
 
TROPPO PRESTO, TROPPO TARDI
(di Roberto Silvestri)
 
La morte del divo adorato della nostra commedia è arrivata troppo presto. Dolce roca voce fuori dal coro. Il risarcimento critico del cineasta, feroce e sottile, profetico e insostenibile, mai odiato mai stroncato ma quasi sempre frainteso, non ancora. E quando ci sarà, sarà comunque troppo tardi. A parte quella famosa, tempestiva pagina satirico-fotografica de "Il Male", diretto da Vincenzo Sparagna, che spiegava, durante i densi e grotteschi giorni del sequestro di Aldo Moro, la centralità e serenità, da anima bella, dello sguardo Ugo Tognazzi, la precisione della sua cinepresa, ben collocata, e quattro volte diretta, fino a quel momento, sul "set Italia" e, anche dopo la sua quinta fatica di regia, nel 1979, sempre alle prese con soggetti straordinari imprigionati in atmosfere visionarie, macchie iconiche di incubi agghiaccianti, travestiti nei tempi e nelle maniere delle commediole di costume, e che anticipavano, minimo di dieci anni, non solo grandi soperchierie e ingiustizie sociali, o ribaltamenti dell'inconscio collettivo, ma dettagliati fatti di cronaca devastanti, come se a lui e a pochi altri (Kafka, Borges...) fosse consentito leggere in anticipo di parecchie ore giorni, mesi, anni i quotidiani a venire, come succedeva in Accadde domani. Il film del '79, l'ultimo diretto da Tognazzi, "I viaggiatori della sera", con Ornella Vanoni, in coproduzione con la Spagna (il set è nelle Canarie) è emblematico a questo proposito. Sembra un canovaccio da Stephen King e invece è tratto dal romanzo omonimo di Umberto Simonetta che Sandro Parenzo ha cosceneggiato: arrivati sulla cinquantina due coniugi, lui disc-jockey, lei femminista, sono obbligati a lasciare la città e il lavoro e trasferirsi in un villaggio di vacanza e riposo (le Canarie), per partecipare al "Grande Gioco" che prevede prima o poi la loro eliminazione fisica. Mentre Hollywood quasi contemporaneamente inventa l'ottimismo anche. in situazioni analoghe (Cocoon 1 e 2), Tognazzi per la prima volta popola una fantascienza futurista, anche se le sue storie sono sempre senza tempo e fuori spazio, e congegna un'ambientazione più esotica e suggestiva per sbarazzarsi, come scrisse Tullio Kezich, del «mesto grigiore da commedia crepuscolare del romanzo». Ma se pensiamo che pochi mesi fa gli sceneggiatori americani over 50 hanno portato alla sbarra i network tv che li discriminano in quanto fuori target, incapaci di scrivere per i giovani, e ne fanno una questione di eguaglianza di fronte alla legge, non possiamo che accorgerci dell'acume di un cineasta che si rendeva ben conto che stava per iniziare il decennio ottanta, quello dominato dal cinema pensato, scritto e desiderato da una schiacciante maggioranza del pubblico pagante che ormai aveva tra i 12 e i 19 anni. E vediamole queste altre "metamorfosi", questi suoi celebri mostri pre-leghisti, pre-yuppies, pre-cellularoidi, ma già così berlusconiani, resi ancor più incandescenti dalla sua regia, personaggi o troppo buoni e molto vessati o troppo cattivi e alla fine molto puniti, a rivelare, dopo l'autopsia di una cinepresa mossa sempre con sobrietà, senza sottolinearsi, tracce improprie nei loro caratteri: una crudeltà o un fondo disumano nei primi, gli ultimi bagliori di un sentimento altruista nei secondi. Ma entrambi imprigionati, da sempre, quasi dalla maledizione genetica, in mondi incomprensibili alla ragione e al cuore: il malessere in famiglia, lo sfruttamento del lavoro salariato, l'alienazione metropolitana, la prigione delle abitazioni nei palazzi dei palazzinari del boom (da mandato di cattura immediato per tutti gli architetti fine anni '50 rie), la sanità, i tribunali e le scuole di classe, una comune sensibilità sessista e razzista, che prima istigano alla fuga e all'esodo da qualunque cosa, fede, ideologia, patria, lotte, esercito, epoca... poi a farti assumere le famose kafkiane sembianze da "bacarozzo", poi sarà da extraparlamentare, oggi si direbbe "extracomunitario", e infatti è tutto un tentativo di distruggerti, schiacciarti, annientarti: sbatti il mostro in prima pagina! La mia generazione si svegliò e si trovò tutta sbattuta in prima pagina. Avevamo il corpo da un milione di occhi dei dieci, cento, mille, primi fumatori di spinello pizzicati (non si chiamava allora solo "canna") e mal fotografati sui quotidiani popolari a monito imperituro. E poi del plagiatore Aldo Braibanti, filosofo e dunque pericoloso in quanto tale. Infine del signor Valpreda. Anarchico, milanese, proletario, milanese, ballerino, dunque pure un po' gay... E poi i beat, gli hippies, i trans, tanti meravigliosi ragazzi e ragazze assassinati e degradati, definiti "terroristi" come Impastato per approfittare della tensione. Vecchi e usurati spartiti, ma ancora li suonano, nonostante i cinque film di Tognazzi apri occhi. E una sua canzone, "Se tu mi amassi come t'amo io", leit-motiv di "Sissignore" (1968), scritta con Amurri, musica di Berto e Pisano. Anni prima Ugo Tognazzi si era liberato di Raimondo Vianello, proprio come Jerry di Dean. E come il comico di The Bellboy è ora finalmente libero di fare tutto quel che vuole, di comandare sul set e di non subire più tagli, luci, movimenti di macchina irritanti. In "Il mantenuto" (1961) Ugo Tognazzi è Stefano Gardelli, modesto impiegato romano, che ha la ventura di penetrare, per i casi del destino, nelle "periferie pasoliniane" dei pappa e delle mignotte e nelle ancor più inquietanti pagine di un copione congegnato dal quintetto: Castellano, Pipolo, Scarnicci, Tarabusi, Salce, che lo trascineranno in un pestaggio, dal commissariato, inizio anni '60 impegnati nelle perife in un qui pro quo, a perdere l'impiego, in un supermarket, dove diviene il pupazzo frustrato agli ordini della padrona-amante Amalia (Marisa Merlini). Il tutto per poter scatenare fuochi d'artificio parodistici sia sul versante del populismo (come sono sacri e unti dal signore, altri i tempi, i sottoproletari) che su quello dell'amara misoginia da ceto medio, un must del "Cinecittà touch" da 40 anni, che porterà Gardelli allo schiavismo di lusso e alla decomposizione del maschio non più centro dell'universo. E siamo alle scaturigini di Ciao maschio. Sono le "controindicazioni" del boom che sta liberando forza lavoro e provoca il terremoto sociale in tutte le famiglie del nord e del sud. Quella "misoginia", neppure estremista, nasce lì e sarà come una fattura che congela da allora il nostro cinema e dalla quale non si riesce ancora a uscire, forse per una orno-ossessione patologica, maschilista anche se gay, della macchina romana del cinema, dalla quale certo per il comico cremonese, di cultura mitteleuropea e di charme quasi cecoslovacco, piuttosto nietzschiano nei fondamentali, a centralità: donne cibo corpo, è riuscito a svicolare con una certa nonchalance (e con lui tutti gli estranei al "vizioso Palazzo nero" o suoi critici più estremi: Pasolini, Fellini, Antonioni, Bertolucci, Bellocchio, ma anche i "brasiliani" Salce, Argento, Celi...). Tognazzi attore sta in primo piano nel film senza ingombrare, come troppo spesso succede invece nelle opere prime dei performer più narcisi e accentratori di battute. Non ci sono vecchi sketches o situazioni stantie, o almeno non ci sono dopo l'arrangiamento di Tognazzi alla "musica", a dimostrazione che non esiste sceneggiatura che non possa essere ribaltata dalla esattezza morale di una carrellata, di un primo piano e di un campo contro campo. Sei anni dopo le ambizioni e l'umorismo nero (di matrice ferreriana, ormai assimilato) aumentano. E Tognazzi resta male per l'esclusione a Cannes del suo secondo film, "Il fischio al naso", 1967, sull'incubo delle "cliniche moderne", che considererà, nel 1972, e nonostante alcuni compromessi con i produttori che ne hanno limato la durezza, «il migliore diretto da un attore italiano» fino a quel momento. Possiamo sottoscrivere. Quando abbiamo visto, in un'arena estiva di Cesenatico, la Salus Bank, dove il ricchissimo Giuseppe Inzerna (Tognazzi) entra per curare un semplice fischio al naso e poi sale via via su, sedotto e intimidito, a curare malattie crescenti e inesistenti, ormai corpo da sfruttamento intensivo e infinitesimale, cavia di mercato, carcassa da test, ricettacolo di sintomi probabili e improbabili, fino a uscirne in elicottero, dal terrazzo, ormai cadavere, ma ibernato, mentre ospedalieri e familiari gareggiano per insensibilità e indecenza, per la prima volta abbiamo osservato, con gli occhi sbarrati, come nella scena finale dell'"Arancia meccanica", il nostro destino fatale. E intravisto il nero futuro ineluttabile del neoliberismo: la fine di un'efficiente assistenza pubblica sanitaria, come negli Usa; il mercato pazzo degli organi (avete saputo cos'è successo nell'obitorio di Sydney?); il giro di scommesse truccate degli infermieri su quale vecchiaccio faranno morire prima; l'eutanasia come scienza della eliminazione del "non produttivo"; le cure dell'Aids fatte lievitare nei costi tanto che ci frega degli africani che muoiono, anzi meglio... E certo anche l'equivalenza, nelle forme autoritarie di allevamento, tra divertimentificio romagnolo e allegoria della sanità sarà stata foriera di non poca acidità di stomaco... "Il fischio al naso" (1967) andrà a Berlino e sarà Grolla d'oro, ma per la prova d'attore. E Nuccio Lodato, giovane e colto critico di tendenza, spiegherà, a proposito della lezione di Ferreri (che nel film fa il dottor Salamoia): «Tognazzi è riuscito dove è fallito Germi». La fenomenologia degli ospedali commerciali è spietata, e di stretta attualità, tanto che il film, a parte una recente rassegna di Stream, non è che si sia rivisto troppo negli ultimi tempi, ma l'allegoria dell'industria della malattia diventa metafora esistenziale e si allarga fino al «senso di impotenza della condizione umana presa nella inestricabile rete del destino», come scriveva Angelo Solmi su "Oggi", ricordando un film inglese altrettanto grottesco e crudele sull'industria delle pompe funebri, che in quel momento spopolava nei cinema d'essai, Il caro estinto. L'importanza de "Il fischio al naso" non deriva solo dalla sua qualità artistica (in particolare la fotografia di Enzo Serafin, di intensità e astrattezza "cool"), la nobiltà della fonte (il racconto di Dino Buzzati Sette piani dalla raccolta I sette messaggeri, Mondadori, 1942) o dalla probabile partecipazione alla sceneggiatura di Rafael Azcona (con Scarnicci Tarabusi Pigna e Tognazzi) allora fisso collaboratore di Marco Ferreri. E neppure perché, maggior incasso di Tognazzi, circa mezzo miliardo (ma costavano poco allora i film), anticipa di tre decenni l'altra incursione feroce, surreale ma nello stesso tempo così autobiografica, insostenibile e vera, di Nanni Moretti nel paese della malasanità più feroce (Caro diario). Diciamo che il film ti entra dentro, come una iniezione di morfina, e lascia segni indelebili, un'opera irreversibile, come il quasi contemporaneo "Pazzi, pupe e pillole" di Jerry Lewis. Ma al di là delle dichiarazioni di intento: «Ho voluto rendere la degenerazione che porta la società dei consumi anche nella scienza, cioé in quella parte della società che dovrebbe conservare l'uomo nella sua integrità fisica e patologica», questa storia dell'industriale del nord magnate della carta che muore in circostanze così surreali, prigioniero di un castello kafkiano regolato da imperscrutabili e furiose leggi del profitto, contro le quali è inutile combattere, non può non contenere frammenti di profezie visionarie e perfino sensazioni di future tragedie, come la morte di Feltrinelli, uomo di cultura raffinata, ma anche industriale e magnate della carta, che saltò sul traliccio per una carica di tritolo «da lui stesso messa». Il tutto senza perdere la leggerezza e il non-tempo, la ferocia satirica e la non-durata di una canzone, magari di Enzo Jannacci e di Dario Fo, struggente, dolorosa, struggente fino a morire dal ridere. Un recente fatto di cronaca avvenuto in pieno 2001 nei pressi di Roma e che ha coinvolto un generale dei carabinieri che, pur essendo causa e testimone di un grave incidente automobilistico, s'è defilato facendo incolpare il suo autista e lasciando 4 cadaveri sul selciato senza soccorso, ci ricorda invece il film del 1968 firmato da Ugo Tognazzi, Sissignore, scritto con Tonfino Guerra, Francesco Indovina e Luigi Malerba, ma prodotto da Mario Cecchi Gori, il cui pesante intervento censorio deve avere falsato non poco la potenza di questa «satira del potere, o meglio una parabola grottesca, evidentemente, della condizione umana» e irritato non poco il cineasta che dichiarerà a Bella: «sono stufo di compromessi, stufo di fare film non miei ma del produttore». I critici, e questa volta sono i titolari, non esaltano ma neppure stroncano. «Non è sufficentemente amaro» scriverà Casiraghi e Di Giammatteo lo relega tra le opere consolatorie, al contrario delle intenzioni del regista. Oscar Scarpetti, autista di un ricco e viscido industriale, l'Avvocato (Gastone Moschin), va in galera invece del padrone che per una bravata, e al posto di guida, ha causato un grave incidente facendo finire in un burrone un pullman carico di cinesi. Ma la sottomissione del servo per il suo padrone non avrà mai fine: uscito dal carcere Oscar dovrà sposare, in bianco, l'amante dell'avvocato, poi coprirà l'Avvocato in altri sordidi affari, finendo in galera di nuovo, sarà istigato quasi al suicidio, lo coprirà in ripetuti affari galanti, fino al punto da regalare l'orecchio al padrone, perché una moglie gelosa gliel'ha staccato di netto come fosse Tyson, e finirà i suoi giorni a Porto Azzurro, tra i «fine pena mai», mentre il capo gozzoviglia per il mondo in yacht con "sua moglie", Maria Grazia Buccella, e lui sogna: che bello se avessi un autista... Il quarto film arriva solo nel 1976 e non a caso troviamo tra gli sceneggiatori il più stralunato dei surrealisti meneghini Enzo Jannacci, l'amico Beppe Viola, oltre che Antonio Leonviola (dal cui racconto parte tutto). Commedia nerissima di costume e un pò sexy, con Edwige Fenech («spogliata, ma con eleganza» scrive Callisto Cosulich), moglie fedifraga secondo il marito, il professionista milanese Mario Marani, che la trascina a Cervinia covando una perfida, sottile e spietata vendetta, "Cattivi pensieri" è un gigantesco sketch demenziale dilatato per un'ora e mezza senza sforzo, visto che ormai Tognazzi per tecnica e capacità di azzerarla a comando ha pochi rivali. Quoziente di difficoltà dunque altissimo, anche se il cast è super (anche Mara Venier, Massimo Serato, Luc Merenda e il milanesissimo Piero Mazzarella), soprattutto per spuntarla al tribunale della critica patentata e perbenista (in quei tempi) che sbarra la strada a tutto ciò che potrebbe cadere nel «linguaggio da trivio e in crude situazioni priapesche» come scrive La Stampa, visto che perfino John Belushi è violentemente stroncato. Figuriamoci che cattiveria contro un attore che, figlio di assicuratore, iniziò piccolissimo a far sbellicare dal ridere fuochisti, macchinisti, frenatori e controllori delle Ferrovie dello Stato, e non solo rifacendo tutte le smorfie di Totò. Uno che aveva lavorando in un salumificio come operaio, facendosi licenziare «per cattivo rendimento»; e che molti ricordavano per uno sketch considerato qualunquista, perché riguardava l'attentato a Togliatti: «Dicono tutti che ha sparato un fascista». E lui: «No, io penso che non era un fascista. Se no avrebbe tirato dritto». Il riferimento era allo slogan fascista e al fatto che l'attentatore aveva mancato parzialmente il colpo, visto che Togliatti se l'era poi cavata; ma Tognazzi continuava raccontando dell'agitazione successiva allo sparo e di qualcuno che aveva chiesto al portiere dell'ospedale dove era ricoverato il segretario del Pci: «Come sta? Come sta?» E quello a causa di un difetto di pronuncia, aveva risposto «Spariamo meglio!». Alla fine dello spettacolo simpatizzanti del Pci senza senso dell'humor gli mollarono un bel cazzotto in faccia... Ma tornando a quel servizio fotografico de Il Male, divertito, provocatorio e molto drammatico. E che invece provava una coscienza politica non comune, e assolutamente non qualunquista. E anzi che Ugo Tognazzi era effettivamente il grande vecchio e davvero il "cattivo maestro", ma molto più grande e molto più cattivo dei piccoli sciagurati burattinai che stavano gestendo nell'ombra quei misteriosi fatti di cronaca o alcuni pericolosi frammenti della vita di alcuni giovani militanti, armati, ma molto mal informati. Ugo Tognazzi, persona attore sceneggiatore e regista, è l'inventore di alcuni tra i pochi film fantasmagorici, «d'azione sensuale» direbbe Antonin Artaud, del cinema italiano. E fu, meno platealmente e più sottilmente degli "amici miei", da Adolfo Celi a Marco Ferreri, da Mario Monicelli a Luciano Salce, il più crudele, il più sganciato dall'ottica, dalla prospettiva e dalla logica dei valori dominanti nella commedia italiana di stile grottesco. Come Antonio Pietrangeli anche Ugo Tognazzi regista è il genio incompreso dell'immaginario italiano più critico con l'esistente. E fu equidistante, come lui, dai tre garanti cariati della democrazia di allora, gli operai comunisti e il loro partito, i contadini cattolici e il loro partito e i ceti medi laico-democratici perennemente senza partito dopo lo sbriciolamento di quello d'Azione e le avviluppate diaspore socialiste. Ceti produttivi italiani, ricchi e poverissimi, di città e di campagna, rampanti o angariati, del nord e del sud, tutti dotati di vizi e virtù atroci, che Tognazzi aveva ben studiato, imitato, deformato, "meticciato" e vampirizzato nella sua fortunata e laboriosa carriera teatrale, televisiva e cinematografica di maschera italiana transgenere che ha il dove re e l'abilità di ironizzare a morte su se stesso. «Se no sarebbe stato un attore francese, un frivolo boulevardienne», come avrebbe commentato un grande ammiratore del nostro, del nostro cinema («è sempre molto politico») e detrattore del suo, Michel Serrault. Facendoci capire perchè Depardieu, Noiret, Delon, Piccoli, Straub e Huillet sono molto meglio degli altri suoi connazionali... e ricordandoci che Jean Gili e la rivista Ecran furono i primi a trattare il nostro cineasta come meritava. La maggiore distanza, e il minor "ammanicamento" con le stanze del potere, in quel decennio Sessanta particolarmente blindate, aiutava i colleghi francesi a chiarire meglio i valori in campo. Vedevano cose che noi non "potevamo" vedere. Lui lo conosceva bene quel blocco storico benigno che Aldo Moro avrebbe voluto cementare insieme in funzione anti-maligni, sempre all'opera, da Tambroni e Greggi a Storace e Previo, e per impedirglielo lo assassinarono, nemici dichiarati e anche amici dissimulati, in uno di quei balletti promiscui tra corpi estranei che abbiamo visto altre volte sul palcoscenico della storia recente, nelle tragedie shakespeariane tra Coard, Bishop e Reagan a Grenada; tra Sankara, Compaoré e Olof Palme in Burkina Faso; tra Rabin, Sharom e Peres in Israele, tra Fbi, Clinton e Oklahoma City in Usa. Quella controcopertina de "Il Male" fu uno spezzone di profezia, e organizzò e riscodellò in una sola pagina le anticipazioni, le resistenze, le testardaggini di una voce/volto/occhio/naso che aveva prodotto immagini troppo inquietanti e intollerabili per non essere sepolte vive dagli addetti ai lavori di allora e dalle istituzioni che li gestivano e controllavano (chiesa, società politica, società economica, società operaia, società dei cinematografari...). Anche allora bastava «la sordina su una voce», come dice bene lo sceneggiatore Elio Bartolini nell'intervista che gli fece Carlo Montanaro nel bel libro Potevano essere film (1998): «non la mandi in televisione, alla radio, sui giornali: il gioco è fatto». "Il Male" non era che un giornale underground. Trovarvi Tognazzi dentro fu quasi più shockante, quanto a scatenamento dei sistemi d'allarme per la democrazia in Italia, del mandato di cattura contro quelle anime belle del 7 aprile o dell'arresto di Adriano Sofri. Gli anni Sessanta furono un ultimo disperato tentativo non di fare la rivoluzione ma di fermare una terribile, strisciante involuzione. Che il cinema di Tognazzi scoprì, visualizzò, e ha combattuto con le armi più potenti, quelle umoristiche, prima di altri.
 

[fonte: TROPPO PRESTO, TROPPO TARDI a cura di Roberto Silvestri. Tratto dal libro "L'ALTERUGO"].

 
 
     
   
   
 
 
 
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