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BIOGRAFIA
  - UGO RACCONTA / Ricordi di Ugo
 
     
 
     
 
Il nonno coi baffi
 
     
  C'è una Cremona che io conosco abbastanza bene, fatta di strade piccole, pavimentate di ciottoli, con una magra striscia di selce al centro della carreggiata. Una Cremona che non c'è più. Tanto tempo fa su quella striscia di selce passava e ripassava il carretto di legno che il mio nonno coi baffi spingeva, e sul quale erano sistemati due grandi bidoni di ghisa pieni di latte, equidistanti fra loro per non creare squilibri, affinché il carretto, che aveva due ruote soltanto, non si rovesciasse in avanti, sollevando magari il nonno coi baffi attaccato alle due stanghe.  
     
     
 
«Teeeee!»
 
     
  Al centro delle ruote di questo carretto dipinto di verde c'era un perno sul quale io, in piedi, riuscivo spesso a fare una gitarella per tutto un quartiere di Cremona, mentre mio nonno coi baffi gridava alle finestre e al vento: «Teeeeeeee!», che voleva dire «Latte!». Fra i miei ricordi di bambino, questo resta uno dei più divertenti. Allora l'automobile era una chimera e il tram un lusso per pochi. Scorrazzare sul perno d'una ruota di carrettino, verde come i tram, era sempre meglio che andarsene a piedi. Tanto più che, spesso, il nonno coi baffi mi dava il permesso di suonare la trombetta d'ottone. Ero, insomma, un trombettiere a carretto. Ci fermavamo a ogni ingresso di caseggiato, a ogni portone. Il grido del nonno coi baffi risuonava per gli androni, su per le trombe delle scale: «Teeeeeeeeeee!». Io davo il tocco finale con una lunga soffiata nella trombetta. E allora scendevano tutte le donne coi pentolini, e mio nonno, servendosi d'un ramaiolo, versava il latte nel misurino, e poi lo passava nelle pentole. Era un latte denso, un pò giallo, che sapeva di latte molto più di tutti quelli assaggiati dopo nel resto della mia vita.  
     
     
 
Il romanzo del nonno
 
     
  Mio nonno coi baffi sembrava molto felice di fare il lattaio ambulante. Realizzava se stesso sostando di portone in portone. Era come se vivesse insieme a tutta la gente del rione, poiché ne conosceva le vicissitudini, le ansie, i desideri, i lutti, le gioie. Aveva sempre una frase per tutti, e tutti avevano sempre una frase per lui. Sapeva chi aveva la febbre, chi aveva partorito, chi metteva le corna alla moglie, chi era partito, chi era arrivato. Era come se leggesse ogni giorno una pagina d'un grande romanzo: la vita.  
     
     
 
Vita moderna
 
     
  Purtroppo, però, per ragioni igieniche, al mio nonno coi baffi un giorno tolsero il carretto. Fu obbligato a vendere il latte in un negozio. Invece di rappresentare una conquista, questo per lui fu il più grande dolore. Come se lo avessero messo in prigione. Mi sembra di ricordare che quando aveva il carretto i suoi baffi fossero all'insù, mentre quando sostava, triste, dietro il bancone della latteria, i suoi poveri baffi se ne stessero, mogi, rivolti all'ingiù. Non era contento che i clienti venissero a trovarlo, si sentiva come un ammalato in corsia che riceveva la visita di numerosi parenti. E, oltretutto, non gli andava giù il fatto che il latte fosse imbottigliato, inscatolato, bell'e pronto da consegnare. Non poter più lavorar di misurino lo frustrava. Si sentiva come uno scultore che non può più adoperare il bulino. E non resistette.  
     
     
 
Una vittima del progresso
 
     
  Un bel giorno mise in vendita la latteria e apri un negozio di carbone. Forse, nel suo ingenuo modo di vedere le cose, volle cambiare completamente anche il colore della merce in vendita. Da bianco a nero. Io credo che avesse scelto di vendere un materiale così in antitesi col latte perché pensava che il carbone, almeno, non avrebbero mai potuto inscatolarlo. E sul carbone, oltretutto, le mosche non si vedevano. S'illudeva di poter riprendere a lavorare magari col misurone, portando il carbone sul carretto, di casa in casa... In spregio alle scatole, al progresso, alla tecnologia. E invece è morto, povero nonno coi baffi all'ingiù. Per colpa di una scatola. Una scatola di esplosivo. Una bomba che gli è entrata proprio in camera e l'ha ucciso mentre dormiva. La tecnologia ce l'aveva su con lui, povero nonno ormai senza più baffi.  
     
     
 
Al lavoro, con puntuale ritardo
 
     
  Mi mettevo in tasca una michetta di pane ancora calda di forno. Ci avrebbe pensato il mio inguine di anni diciotto a tenere la michetta calda e fragrante fino a quando, in ufficio, i primi morsi della fame avrebbero cominciato a farsi sentire. Il pane, caldo di forno e del mio corpo, era buonissimo. Così come esaltante era la sigaretta fumata nel cesso. Ne comperavo due uscendo di casa, e le mettevo nell'altra tasca. Montavo in bicicletta, percorrevo via Milano, il sottopassaggio della ferrovia, un pezzo di strada in terra battuta ed entravo nello stabilimento: un salumificio. La sola industria di chiara ispirazione agricola in una città, Cremona, totalmente agricola. Grugniti di morte mi accoglievano all'ingresso. Attraversavo in sella l'ampio cortile che divideva il reparto macellazione dal reparto contabilità, senza timbrare l'orologio perché ero impiegato e non operaio, e arrivavo con puntuale ritardo ogni mattina alla mia scrivania.  
     
     
 
Le gomme
 
     
  Le scrivanie erano una dozzina, disposte su due file tutte rivolte al muro, mentre il capoufficio da una grande vetrata poteva osservare e spiare le nostre schiene curve sul lavoro. Era vietato fumare in ufficio, forse per non contaminare il lezzo di macellazione suina che riempiva l'aria. Io andavo al gabinetto alle nove e alle undici, per fumarmi le due sigarette; e mi trattenevo qualche minuto in più nello spogliatoio per annusare il vestito di Nicetta, l'unica femmina del salumificio. Nicetta aveva il permesso di entrare con qualche minuto di ritardo perché potesse sostare nello spogliatoio comune per togliersi l'abito e indossare il grembiule nero. Lavorava due scrivanie dietro la mia; mi ero innamorato di lei chiedendole una gomma. La gomma non mi serviva affatto, ma nel chinarmi per prenderla avevo potuto sfiorare con il mio viso i suoi capelli. Il suo vestito nello spogliatoio era come un ramoscello di bergamotto in un campo concimato. Io annusavo ogni mattina il bergamotto e di conseguenza non facevo che chiedere gomme a Nicetta. Un giorno il capoufficio mi invitò a sbagliare un pò meno, o a richiedere direttamente le gomme in cancelleria. Ma io continuavo a rivolgermi a lei; e ogni volta che le chiedevo una gomma, Nicetta diventava rossa lasciandomi sperare.  
     
     
 
Le galosce
 
     
  Quando pioveva gli impiegati mettevano le galosce. Entravano nello spogliatoio, si toglievano il trench, lo appendevano al loro attaccapanni e, sotto, in bell'ordine, posavano le galosce: tutte in fila sembravano un piccolo esercito di lucidi giganteschi scarafaggi. Una volta, dopo aver fumato la sigaretta e annusato il vestito di Nicetta, scambiai il posto a tutte le galosce. Gli impiegati capirono subito che ero stato io perché ero l'unico che non le portava.  
     
     
 
La matita
 
     
  Fecero subito la spia al capoufficio il quale cominciò a seguirmi con più attenzione dalla vetrata, scoprendo alla fine l'espediente della matita sotto il mento. Era un espediente dettato dalla necessità: verso le due del pomeriggio mi prendeva la classica botta di sonno, e avevo perciò escogitato un sistema per dormire qualche minuto senza muovermi dalla scrivania e soprattutto senza farmi scorgere dal capoufficio. Infilavo una grossa gomma sulla punta della matita, appoggiavo l'estremità opposta sulla scrivania e il mento sulla gomma. Una penna nella mano destra e il gomito saldamente appoggiato a un grosso registro, mi permettevano di mantenere un perfetto equilibrio fra mento-gomma e matita. Con l'indice della mano sinistra schiacciavo il tabulatore della macchina calcolatrice dopo aver inserito il moltiplicatore e, tenendo il dito appoggiato al tasto, determinavo un moto continuo di numeri che si ripetevano all'infinito. La monotonia del rumore, oltretutto, mi conciliava ancor più il sonno. In questa posizione, spalle al capoufficio, io dormivo.  
     
     
 
Bill
 
     
  Lo chiamavano Bill. Era matto da legare ma intelligentissimo. Faceva i quattrocento a ostacoli, era littore di non so che cosa, e aveva un tic a un occhio. Una domenica mittina lo avevano visto penzolare dal balcone del terzo piano di casa sua, aggrappato alla ringhiera, mentre gridava alla madre terrorizzata che lo guardava dal marciapiede sottostante: «Se non mi dai due lire, mi butto!». Le due lire datano subito l'episodio.  
     
     
 
La vittoria finale
 
     
 

Qualche anno dopo, diciamo verso la fine del '43, io e Bill stiamo parlando davanti alla galleria di Cremona. Lui nella vittoria finale ci crede ancora. Io non me ne curo proprio. Ho solo voglia di recitare, e dico a Bill che ho scritto il copione di una rivista prima dell'8 settembre, ma che forse ora dovrà cambiare qualcosa, e Bill mi risponde seccato se penso che sia cambiato qualcosa, e io dico di no, che parlavo del copione, e allora Bill mi dice che quando si crede in qualcosa bisogna andare fino in fondo, e io non capisco se devo credere fino in fondo al copione o a quello che dice lui.

 
     
     
 
Gino in pantaloni corti
 
     
  Bill dà un'altra spallata alla colonna e mi dice che se preparerò lo spettacolo entro un mese potrò disporre del Teatro Ponchielli, quello dell'opera. Io dico che dispongo di un gruppo finanziario, degli attori e cantanti delle Primule, di un maestro d'orchestra e di una costumista. Il gruppo finanziario era composto da un giovane impresario di pompe funebri, da un figlio di papà, o meglio un figlio di zio, dato che era lo zio che gli forniva i quattrini, e da un funzionario del consorzio agrario. Gli attori delle Primule, raccolti nelle varie filodrammatiche cittadine, recitavano, cantavano, suonavano. Il maestro d'orchestra era proprietario di una fabbrica di organetti per la questua ambulante. La costumista era mia madre. «Che vuoi?» dice Bill a un ragazzo coi calzoni corti, che da alcuni minuti si è piazzato tra me e lui ad ascoltare i nostri discorsi. «Niente» dice il ragazzo. «Vorrei entrare anch'io in compagnia.» «A fare che?» «Anche il suggeritore» dice il ragazzo coi calzoni corti, e non si muove finché non gli do qualche speranza. «Mi chiamo Gino» conclude.  
     
     
 
Il nome in ditta
 
     
 

Gino, coi pantaloni corti, è sempre lì tra me e Bill, cocciuto, fissato, tenace. «Fatemi almeno fare il suggeritore», insiste. «Va' fora da le bale.» Bill mi prende sottobraccio e mi dice che lo spettacolo sarà «pro armi alla patria». Un mese dopo, incollate alle colonne della galleria, appaiono le locandine.

UGO TOGNAZZI
presenta
UNA NUVOLA IN VACANZA
di UGO TOGNAZZI
Rivista satirica in due tempi
interpretata da
UGO TOGNAZZI
Regia di UGO TOGNAZZI
Parole delle canzoni
di UGO TOGNAZZI
Costumi di ALBA TOGNAZZI

 
     
     
 
Finalissimo
 
     
 

I sipari, i tendaggi e i costumi erano tutti di colore nero, viola, bianco, di quel raso che si adopera per addobbare le casse da morto. La fornitura era dell'impresario di pompe funebri, nostro finanziatore. Il Teatro Ponchielli era esaurito. Bill, la sera della prima, stava in palco di proscenio con Roberto Farinacci. Gino, nella buca del suggeritore, s'era messo in smoking. Nel finalissimo cantavamo tutti in coro:

Primule
noi siam le Primule,
ed un final originale vi cantiam...
Su nel ciel,
fra tante nuvole,
questo motivo più giulivo sembrerà...
Se abbiam fatto divertire lieti siam,
e insieme ringraziam di vero cuor..
Se l'applauso invece non ci giungerà,
che delusione allor per noi sarà...
Primule,
noi siam le Primule,
segreto di felicita!

 
     
     
 
Gino in pantaloni lunghi
 
     
 

Ritroverò Gino, coi pantaloni lunghi, due anni dopo a Milano, davanti al Teatro Mediolanum.

«Che fai qui?» gli dico.
«Niente, voglio venire anch'io in compagnia.»
«A fare che?»
«Anche il suggeritore.»

Ero già diventato attore professionista e mi preparavo al debutto nazionale. Le prove erano cominciate da pochi giorni. Alla prova generale, Gino mi fece trovare il camerino completamente tappezzato di seta damascata color verde con un lampadario di cristallo al centro. Sembrava il camerino di Eleonora Duse.

 
     
     
 
Il papà di Gino
 
     
  La sera del debutto, che fu un vero disastro, durante l'intervallo tra il primo e il secondo tempo salirono sul palcoscenico i genitori di Gino. Durante i loro distratti complimenti, notai gli sguardi che lanciavano ai damaschi del mio camerino e al lampadario. Credevo che fossero compiaciuti e meravigliati da tutto quello splendore. Mi sbagliavo. La seta damascata e il lampadario facevano parte dell'arredamento di una stanza del loro appartamento rimasta chiusa a chiave durante la guerra perché uno spezzone incendiario era entrato dalla finestra danneggiando il pavimento. Gino aveva staccato il damasco dalle pareti e il lampadario dal soffitto e ci aveva addobbato il mio camerino. Dell'argenteria e delle stoviglie, però, giuro di non averne saputo mai niente! La comprensibile avversione per il teatro maturata quella sera nei genitori di Gino non poteva non trasformarsi in odio sordo quando lui decise di seguire la compagnia in tournée fuori Milano. Sopra un tram diretto alla stazione il padre di Gino tentò per l'ultima volta di convincerlo ad abbandonare l'idea di far parte del mondo corrotto del teatro. Gino approfittò di una fermata facoltativa per scendere dal tram e correre come un'anima dannata verso la stazione. Il padre gli corse appresso, e per fermarlo si mise a gridare: «Al ladro!». Subito due passanti si buttarono su Gino, cominciando a picchiarlo. Il padre arrivò trafelato e si mise a difendere il figlio. «Non picchiatelo, è mio figlio!» Automaticamente, i due passanti, contrariati dall'accaduto, si misero a picchiare lui. E Gino ne approfittò per riprendere la sua corsa verso la stazione.  
     
     
 
Vent'anni dopo Gino
 
     
  «Io glielo dico, ma lei faccia finta di niente: fra qualche minuto facciamo sciopero!» Così mi sussurra in un orecchio la parrucchiera, mentre mi porge la matita per gli occhi. Siamo nella sala trucco degli studi TV di Torino. «Sciopero di chi?» dico io senza voltarmi, guardandola attraverso lo specchio. «Roba nostra, del personale del trucco. Mi dispiace per lei che è venuto da Roma per niente.» E mi sorride, pacioccona, con l'aria di chi è stata bella prima di ingrassare. La guardo nello specchio e mi guardo. E la rivedo più magra; e mi rivedo più magro davanti a uno specchio come questo, a Milano, quando facevo "Un, due, tre", molti anni fa, con Vianello. Vianello era in una poltrona accanto alla mia, ripassavamo le battute mentre la parrucchiera porgeva a me il fondotinta, e a Raimondo una matita nera per disegnarsi qualche capello in più sulla fronte. «Questa battuta alla prova non la diciamo, così li freghiamo in trasmissione» dicevo io a Vianello. La parrucchiera sorrideva, complice. «Qualche volta ci sbatteranno via!» E così fecero. Bastò prendere in giro Gronchi.  
 

 

 
 
     
   
   
 
 
 
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DICONO DI LUI
 
 
LA CRITICA E UGO
 
 
UGO TOGNAZZI E RAIMONDO VIANELLO
 
     
 
 
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