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CUCINA
  - CURIOSITA' DI CUCINA - Gianmarco Tognazzi parla della cucina di Ugo
 
     
 
     
 
GIANMARCO TOGNAZZI A LA FELTRINELLI
 
 
(articolo di Fabrizio Coscia, "IL MATTINO" 28 settembre 2004)
 
     
 
«Mio padre? Con la sua cucina mi ha insegnato la vita a tavola»
 
     
  «Per me la cucina di papà è stata una grande lezione di vita, un punto d'incontro e di scontro ma soprattutto l'ingresso in un mondo affascinante». Testimone delle leggendarie «grandi abbuffate» della villa di Velletri, Gianmarco Tognazzi (che sarà stasera alle 18,30 a «La Feltrinelli» di piazza dei Martiri per presentare con Francesco De Core, Antonio Fiore e Giulio Baffi la ristampa di Avagliano de "L'abbuffone", libro di ricette di suo padre Ugo), rievoca con passione la sua educazione sentimental-gastronomica, intrecciando le fila di un personale romanzo familiare. Figlio di cotanto padre, grande attore cuoco impareggiabile, antesignano della divulgazione della cultura gastronomica e anfitrione indimenticabile, Gianmarco parla dei suoi ricordi di ragazzino, quando faceva da assaggiatore personale dei piatti di papà, e quando amare la cucina era per lui un modo per attirare l'attenzione di un padre spesso assente da casa per lavoro.  
     
     
  Cosa ricorda in particolare di quelle cene?  
     
  «Ugo le chiamava le cene dei dodici apostoli, ed è facile capire lui che ruolo occupava nella tavolata. Ho avuto la fortuna di parteciparvi perché papà mi usava come riserva. Se mancava uno dei commensali, come Monicelli, Ferreri o Villaggio, avevo il privilegio di sedermi a tavola con loro e di apprezzare le straordinarie qualità istrioniche di mio padre, per il quale le cene erano soprattutto un'occasione per contornarsi di amici e parlare di lavoro, di donne, di sport. Per me era un'opportunità straordinaria: da quelle cene ho imparato tutto sul cinema e sul mondo. In quelle occasioni ho capito che volevo fare l'attore».  
     
     
  Qual era il pregio principale del Tognazzi cuoco?  
     
  «La commissione tra i gusti e le diverse tradizioni gastronomiche e la capacità di rischiare, come nel cinema. Se ripeteva lo stesso piatto dieci volte cambiava sempre la metodologia di preparazione. Si esponeva a dei rischi, anche. Alle sue cene si davano i voti, e non c'era niente di peggio per lui del fallimento culinario. Se un piatto non veniva apprezzato, cosa che avveniva rarissimamente, si alzava da tavola e si chiudeva in camera, lasciando i suoi ospiti per il resto della serata. La cucina per lui era una passione totalizzante, e una continua elaborazione. Aveva il suo orto perché voleva che tutto provenisse dalla sua terra. Cucinare era un elogio della vita e della natura».  
     
     
  La sua migliore ricetta?  
     
  «Impossibile rispondere. È come chiedere qual è stato il suo film migliore. Posso dire di un certo tipo di sapore che riusciva a cavar fuori dalla zuppa col cavolo nero o dalle ribollite, ad esempio. Ma ci sarebbero almeno una quarantina di piatti da citare».  
 
     
   
   
 
 
Curiosità di cucina
 
     
 
 
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